La parete con l'«Annunciazione» del Pontormo dopo il restauro

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La parete con l'«Annunciazione» del Pontormo dopo il restauro

Firenze, riapre dopo il restauro la Cappella Capponi

Il gioiello di Brunelleschi nella Chiesa di Santa Felicita ospita «Deposizione» e «Annunciazione» del Pontormo

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Laura Lombardi

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Firenze. Riapre dopo un complesso restauro la Cappella Capponi (già Barbadori) in Santa Felicita, decorata, per volere di Lodovico Capponi, dal Pontormo che, tra il 1526 e il 1529, vi dipinse la tavola con la «Deposizione» e l’affresco dell’«Annunciazione» e, insieme a Agnolo Bronzino, suo allievo, i tondi con gli Evangelisti. Il restauro, eseguito sotto la direzione di Daniele Rapino è stato realizzato grazie alla fondazione non profit Friends of Florence e in particolare ai donatori Kathe e John Dyson.

Un complesso architettonico straordinario, gioiello dell’ingegno brunelleschiano (1425), la cui cupola Vasari scrive esser stata il modello per quella di Santa Maria del Fiore, come rivela infatti la struttura originaria, concepita esattamente uguale e ora ritrovata inglobata nell’architettura settecentesca della chiesa. Tale cupola fu poi «decapitata» di 40 cm, per volere di Pietro Leopoldo nel 1766, al fine di creare un coretto (cui si accedeva dal Corridoio Vasariano che collega gli Uffizi a Pitti) dal quale la famiglia granducale poteva assistere alle funzioni nella chiesa. Fu realizzata così, a nuova copertura, una calotta decorata da Domenico Stagi (1766-70), poi imbiancata nel Novecento in omaggio a un’idea purista del Quattrocento, che col presente restauro torna a essere visibile.

Degli affreschi del Pontormo, che le fonti ci dicono raffigurare i quattro Padri della chiesa e il Padre Eterno (e di cui esistono anche i disegni preparatori al Gabinetto Disegni e Stampe degli Uffizi), potrebbe essere ancora traccia al di sopra di quella struttura, ma cercarli comporterebbe un ingente smantellamento. Dell’architettura brunelleschiana sono invece ancora visibili due colonne (e mezzo) in pietra serena, nelle quali il restauro ha rivelato tracce di doratura originale. Non solo, ma essendo l’architettura brunelleschiana «incapsulata» nei rimaneggiamenti settecenteschi di Ferdinando Ruggieri, è stato possibile ritrovare nei sottarchi tra ordine maggiore e ordine minore, tracce di colore blu, quelle dell’arme Barbadori, a smentire l’idea di un Brunelleschi austero, tutto pietra serena e bianco.

Venendo ora alle pitture di Pontormo, la parte che più ha sofferto nei secoli è l’affresco raffigurante l’«Annunciazione», preso in «cura» con perizia da Paolo Cantaluppi, letteralmente invaso nel 1620 dall’inserimento, per volere di Orazio Capponi, di un tabernacolo di pietre dure, opera di manifattura fiorentina che racchiude il «Ritratto di san Carlo Borromeo», dipinto a olio su lavagna (di artista non identificato), e dotato di una cassetta per le reliquie poi trafugata negli anni Sessanta del Novecento (oggi rifatta). Il committente si trovava allora a Roma e un carteggio testimonia il suo disappunto nell’apprendere come i lavori fossero stati eseguiti danneggiando l’affresco del Pontormo, commissionato dalla stessa famiglia Capponi un secolo prima, insieme alla vetrata di Guglielmo di Marcillat, che si trova ora nella cappellina del Palazzo Capponi, mentre in chiesa è una copia novecentesca.

L’«Annunciazione» che fu eseguita a fresco (otto giornate per l’Angelo e nove per la Vergine) con interventi a secco per rendere ad esempio l’effetto sfumato delle piume delle ali dell’angelo, o la morbidezza di alcuni panneggi sulle membra, subì poi un secondo ingente trauma per l’alluvione del 1966. Staccato in quell’occasione, l’affresco fu ricollocato, prima su un supporto di masonite, poi, nel corso degli anni Settanta, sostituito da un supporto di vetro resina. Tale supporto è stato tuttavia interamente bonificato, prima di ricollocarvi l’affresco, perché in alcuni punti presentava fenomeni di distacco. Per quanto concerne la pittura, rispetto al precedente restauro che, com’era nelle teorie di quegli anni, preferiva lasciare evidenti le lacune, l’intervento odierno presenta ricostruite, seppur sottotono, le parti mancanti, restituendo così piena leggibilità alle due splendide figure; le integrazioni, del tutto riconoscibili, riguardano comunque parti dove non era più alcuna traccia di pittura originale. Le figure dell’Angelo e della Vergine si stagliano dunque più luminose sullo sfondo lasciato volutamente dal Pontormo del bianco del muro a calce, un colore che si era però notevolmente ingiallito, come quello dello sfondo della tavola della «Deposizione».

I risultati della «Deposizione», sulla parete contigua, affidato alle sapienti mani di Daniele Rossi (già autore nel 2010 del restauro dei tondi degli Evangelisti nella cappella e poi della «Visitazione» di Carmignano) e di Roberto Buda per il supporto ligneo, erano già potuti essere apprezzati nei mesi scorsi, quando la tavola era stata esposta, proprio nel periodo di chiusura della cappella Capponi, alla mostra «Il Cinquecento a Firenze» a Palazzo Strozzi, curata da Carlo Falciani e Antonio Natali. L’opera, una delle più note e più straordinarie del Cinquecento, fu dipinta usando tempera all’uovo mescolata con biacca per ottenere quegli effetti di luce che sono presenti anche nell’affresco. Anche nella «Deposizione» è scomparsa la tonalità giallastra quasi verdognola assunta a causa delle vernici, che ne aveva offuscato la lettura di certe parti, come il cielo (dove è riapparsa anche una nuvoletta) al punto che Pasolini, ai tempi de la «Ricotta» del 1963 (episodio di «Rogopag») definiva in modo suggestivo, ma a questo punto erroneo, il cielo d’un verde simili a quello «delle foglie subacquee».

Nello smagliante intarsio di forme e colori che quel capolavoro della vasariana Maniera moderna presenta, possiamo incantarci su certi particolari, tra cui perfino le impronte del polpastrello con cui Pontormo in qualche punto, ha finito di stendere la pittura prima che si asciugasse, come per spostare un ciuffo di capelli biondi nel suo autoritratto, visibile sulla destra, o nel lembo di stoffa in basso tra le gambe delle figure, oppure gli inserti netti e luminosi di rosso cinabro di alcune stoffe che si ritagliano nel groviglio dei corpi di coloro che sorreggono Cristo deposto dalla Croce e i cangiantismi straordinari di alcune vesti, aderenti come calzamaglie alle membra. Un’opera le cui porzioni, se ritagliate dal contesto, potrebbero esser scambiate per un dipinto orfico di Robert o Sonia Delaunay, o per una Georgia O’Keefe a testimoniare quell’anacronismo delle immagini che spezza la linearità progressiva della storia dell’arte, teorizzato da Georges Didi-Huberman, sulla scia di Aby Warburg.

Se in mostra a Strozzi la «Deposizione» figurava priva di cornice, qui la possiamo invece ammirare ricollocata nell’intaglio finissimo e sontuoso, ricostruito solo in minime parti, grazie alle cure di Umi Toyosaki. Lo strato d’oro della cornice è spesso, e tutto originale, quindi solo pulito per ritrovare il suo splendore. Le dimensioni corrispondono perfettamente alla tavola, ma solo la parte bassa è completata da un listello di pochi centimetri, al quale la tavola era fissata con chiodi antichi, forse fin dal Cinquecento. Come se l’errore di dimensioni risalisse proprio al tempo della realizzazione della cornice stessa, che tutti ritengono coerente al dipinto: il restauro (che ha comportato anche la sostituzione del listello) ha confermato infatti che la tavola di Pontormo non è mai stata segata, essendovi chiara traccia del gesso che scola sul bordo inferiore della tavola. Restaurata anche la tavola d’altare, per mano di Gloria Verniani e Luigina Ciurlia, mentre ai paramenti marmorei e affini hanno lavorato Elena Alfani e Stefano Bacati.

L’operazione ha visto il coinvolgimento di Massimo Coli del Dipartimento di Scienza della Terra e del Dipartimento di Architettura dell’Università di Firenze, di Marta Castellini, Andrea Bacci e Michelangelo Micheloni, senza dimenticare don Gregorio, parroco di Santa Felicita e don Luca. Per la cappella è stata studiata infine una nuova illuminazione che dia rilievo a tutte la parti: prima era infatti calata nel buio e, mettendo la monetina, la luce si concentrava soprattutto sulla tavola.

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Laura Lombardi, 30 marzo 2018 | © Riproduzione riservata

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