Image
Image

Elogio del falso in una bassa epoca

Zeri aveva suggerito che «fare l’arte moderna è molto più difficile che fare l’arte antica», ma per il celebre saggista e accademico di Francia «i falsi sono molto più numerosi nell’arte moderna che nell’arte antica». Feticci creati dal mercato

Durante varie settimane ho quindi visto uscire da valigette di cuoio o da pacchi mal confezionati dozzine e dozzine di Manet, Monet, Renoir e Picasso, e tutte erano copie più o meno abili, ossia dei falsi. Davanti alla delusione dei miei visitatori, che per la maggior parte li avevano acquistati a caro prezzo, e di fronte alla loro incredulità, dovevo ogni volta, per convincerli, metter sotto i loro occhi le illustrazioni dei cataloghi ragionati, a prova del fatto che l’originale si trovava altrove, oppure che certe distinzioni sottili ma ben visibili permettevano di stabilire la mediocrità della copia in confronto alla qualità dell’originale. In pochi mesi mi sono così passati tra le mani centinaia di falsi, un dato di fatto che rende la casistica vertiginosa: quanti milioni di falsi sono messi in circolazione nel mondo, e si ritrovano sulle pareti degli amatori, elementi di un mercato praticamente indecifrabile ma che conta miliardi di dollari?
Una volta, tuttavia, durante una seduta del comitato delle acquisizioni per i musei di Francia, mi fu chiesto di rinunciare alla mia capacità di esperto a proposito di una serie di opere che giudicavo autentiche, ma che dovetti rifiutare come falsi, o almeno sospetti di falsità. Si trattava di sei ammirevoli disegni di Picasso, proposti come dono alla Francia da parte dell’autista dell’artista. Gli eredi del maestro contestavano la firma e mettevano in dubbio l’origine dei disegni. Un imbroglio che si è riprodotto recentemente, quando fu resa nota l’esistenza di un’importante collezione di opere di Picasso, circa trecento pezzi, che sarebbero state offerte in dono da Picasso al suo elettricista, il quale si rivelò poi essere un parente dell’autista. Gli eredi, questa volta, parlarono di furto. E l’affare resta tuttora in sospeso.

Dovetti quindi spiegare ai miei colleghi che, nonostante fossi personalmente convinto non solo dell’autenticità ma anche della qualità dei disegni, il comitato doveva rifiutare la donazione.

L’unico e la sua proprietà L’asprezza dei dibattiti si basa su un certo numero di presupposti ormai consolidati da tanto tempo nelle coscienze che non si pensa di porli in discussione.

Un’opera d’arte sarebbe necessariamente originale, unica, di mano di un solo autore. Un unicum che deriverebbe il proprio valore dal fatto di essere il frutto inimitabile, irriproducibile, di quell’individuo irripetibile che sarebbe l’artista, considerato in quanto tale come un genio, uno specimen umano superiore ai propri simili, dotato di un’originalità e di un’origine ineguagliabili. In un mondo dedito alla riproducibilità tecnica illimitata, in cui è ormai praticamente impossibile distinguere l’originale dalla copia o dalla ripetizione, questa speciale qualità diventa quasi metafisica, e al momento della vendita assicura all’opera d’arte delle valutazioni astronomiche, mentre tutti gli altri beni, riproducibili e di una banalità più o meno evidente, sono ormai messi sul mercato a prezzi sempre più bassi, dalle automobili ai computer.

Se i falsi che dovevo identificare nel mio ufficio del Metropolitan Museum erano il più delle volte grossolani, costituivano solo l’aspetto più ingenuo, comune, quotidiano di un traffico altamente organizzato, che coinvolge le più alte istanze del mondo dell’arte. Ogni anno porta una messe di sorprese. Nel 2011, per esempio, la venerabile galleria Knoedler di New York ha dovuto chiudere precipitosamente i battenti. Aveva acquistato, negli anni compresi tra il 1994 e il 2009, ben sessantatré false tele di pittori espressionisti astratti americani: Jackson Pollock, Mark Rothko, Robert Motherwell, Franz Kline, Willem de Kooning e Sam Francis, per la somma di 33 milioni di dollari. Erano state poi rivendute per oltre 80 milioni di dollari. I falsi erano stati fabbricati da un pittore cinese del Queens, che ne aveva ricavato 65mila dollari. Un altro esempio clamoroso ci è stato offerto recentemente dal caso detto dei falsi Max Ernst. Lo scandalo è scoppiato nel marzo 2010. Si tratta di un traffico di falsi quadri moderni: Max Ernst (tra cui «Il terremoto» del 1928), ma anche André Derain, Fernand Léger e due espressionisti tedeschi, Max Pechstein e Heinrich Campendonk. Quattordici quadri sono stati venduti per più di 34 milioni di euro. E trentatré altri probabili falsi sono stati messi in vendita. Il falsario è un artista di grande abilità, i suoi falsi Max Ernst erano stati giudicati autentici dallo specialista internazionale dell’artista, autore tra l’altro di un monumentale catalogo ragionato dell’opera, e che aveva proposto, entusiasta, di includerli nell’edizione definitiva.
Ma questo esperto eminente non è stato il solo a essere indotto in inganno: il direttore del Metropolitan Museum di New York, a cui il falso «Terremoto» di Max Ernst era stato promesso in dono dal collezionista che l’aveva acquisito, e persino la vedova dell’artista, Dorothea Tanning, trovarono il quadro meraviglioso. E il suo pedigree pareva in effetti impressionante: come gli altri tredici, sarebbe stato venduto dalla galleria di Alfred Flechtheim, uno dei più grandi mercanti d’arte tedeschi degli anni Trenta, fuggito dai nazisti nel 1933 lasciando la sua collezione, e in particolare una cinquantina di Max Ernst, che non furono mai ritrovati. Ma la sposa era troppo bella: un esame approfondito ha mostrato che i quadri non potevano essere autentici. Le etichette poste sul verso delle tele e menzionanti la provenienza dalla galleria Flechtheim erano false. E l’esame chimico dei pigmenti ha rivelato l’uso di bianco di titanio, che non esisteva all’epoca in cui Max Ernst li avrebbe dipinti. Il caso è esemplare. Un falsario di genio, pittore egli stesso, dotato di un’abilità tale da ingannare il migliore specialista di Max Ernst, la vedova dell’artista e infine il direttore del Met di New York. Un falsario capace di dipingere un Campendonk più bello di tutti i Campendonk di Campendonk, mescolando abilmente elementi tratti da varie opere dell’artista, realizzando un collage perfettamente naturale, non la banale copia di un Campendonk o di un Max Ernst, ma un Campendonk ideale, che riuscirà a vendere a un prezzo tre volte superiore alla quotazione normale dell’artista. E un Max Ernst più bello dei più belli tra i veri Max Ernst.

Ma non solo: il falsario è abbastanza erudito da immaginare una storia per ogni opera, in modo da ingannare gli storici dell’arte. Anzi, ancor meglio: in modo da rispondere alla loro attesa e prevenire i loro desideri. Ecco qui le opere scomparse nel 1933, una data malefica, carica di significato, che paralizza il giudizio; opere tanto attese che quando miracolosamente riappaiono sul mercato non si può far altro in effetti che credere alla riapparizione. Infine, un intermediario, direttore di una casa d’aste conosciuta, onorevolmente stabilita a Colonia. Lo scenario si perfeziona quando l’opera si ritrova nella collezione di una grande galleria parigina, è rivenduta a un collezionista di New York, e infine è chiesta in prestito dall’autore del catalogo ragionato di Max Ernst per la grande retrospettiva che prepara al Metropolitan Museum. Alla fine del percorso, il «Terremoto» viene venduto con l’assicurazione che sarà incluso nella prossima edizione del catalogo ragionato.

Naturalmente, a ogni tappa, il valore dell’opera aumenta, fino a raggiungere, per l’ultima transazione, 1,1 milioni di dollari. La vendita sarà annullata da Sotheby’s e l’inchiesta inizierà, per poi estendersi agli altri quadri dipinti dal falsario. Il meccanismo che si è messo in moto e che gira sempre più velocemente è dell’ordine del credito, nel senso finanziario come nell’accezione filosofica. Si vede quel che si vuol vedere, e quel che si vuol vedere è l’anello mancante della serie, il capolavoro sconosciuto. L’aspetto affascinante, nell’esempio appena citato, è la straordinaria qualità plastica dei falsi. Si tratta di opere complesse, dall’iconografia elaborata e di fattura esperta. Federico Zeri, a suo tempo, aveva suggerito che «fare l’arte moderna è molto più difficile che fare l’arte antica. [...] Che l’arte moderna sia difficilissima a esser concretizzata lo dimostra il fatto che è difficilissimo, se non impossibile, falsificarla. È molto più facile tentare un falso di una pittura antica che non un falso di una pittura moderna, anzi direi che quella moderna si scopre immediatamente». La prima affermazione è giusta. Fare l’arte moderna è molto più difficile che fare l’arte antica. Ma la seconda è falsa. Tutto quello che abbiamo appena detto, mostrato e dimostrato va contro l’opinione di Zeri. I falsi sono molto più numerosi nell’arte moderna che non nell’arte antica, e sono spesso assai difficilmente reperibili, tanto che il commercio del falso raggiunge cifre che possiamo solo immaginare, infinitamente superiori al giro d’affari del commercio dei falsi quadri antichi. Quando vediamo apparire dei falsi Mondrian, continua Zeri, «e non sono pochi, si scoprono immediatamente. [...] Il falso Mondrian si riconosce immediatamente». Se così fosse, come spiegare il fatto che il Centre Pompidou, qualche anno fa, stava per acquisire appunto un Mondrian, che poi si rivelò essere un falso, e che furono necessarie lunghe ricerche per convincersene, tanto che il grande specialista di Mondrian, Michel Seuphor, fu indotto in inganno?

L’unità tra materia pittorica e forma, tra concetto ed esecuzione sarebbe tale, secondo Zeri, da non permettere errori. L’arte moderna, dell’ordine dell’ineffabile, della rivelazione improvvisa, sarebbe quindi al riparo dalle ripetizioni che alimentano il mercato delle copie.
Io sarei tentato di proporre la tesi, contraria a quella di Zeri, che la nozione del falso nell’arte è nata in realtà dall’estetica stessa della modernità, e che parlare di «falsi» per delle opere di epoche anteriori è in un certo senso un anacronismo. È perché la modernità si è fondata sull’affermazione della singolarità del soggetto, dal Romanticismo all’Avanguardia, che l’idea del falso ha acquisito una tale potenza, e ha fatto nascere tutta un’industria. Comprendere il meccanismo del falso sarebbe allora penetrare nel cuore della natura stessa dell’arte moderna, che non sopporta l’esistenza di un simile, e quindi ha provocato la fantastica proliferazione dei «falsi».

Che l’arte moderna sia ineffabile, che sia creazione pura irriducibile a un corpus scritto, è una favola, alla quale volle credere anche un altro erudito, Erwin Panofsky, un po’ compiacente sotto un’apparente modestia, quando sosteneva che il suo metodo, l’iconologia, sviluppato per analizzare il contenuto delle opere antiche, si fermava alle porte dell’arte moderna e contemporanea, perché le opere moderne sarebbero senza soggetto, senza motivo, senza leggenda, o perché vi sarebbe in esse (come per Zeri un’unità indicibile tra materia e forma) «un passaggio diretto dal motivo al contenuto». La loro assoluta singolarità, sottraendole all’analisi iconologica in assenza della mediazione del contenuto, le metterebbe quindi al riparo anche dalle repliche, le varianti, le interpretazioni...

L’esempio che abbiamo citato dei falsi Max Ernst mostra che Panofsky, come Zeri, si sbagliava. Vi sono dei quadri moderni, abbastanza sapienti, eruditi, nutriti di una ricca iconologia, nonostante l’apparente astrazione come nel caso di Mondrian, o la pretesa fantasia nel caso di Ernst, da poter fornire un materiale propizio alle copie, alle variazioni sottili e dopotutto ammirevoli.

Il miracolo della moltiplicazione dei falsi Il problema si complica nell’arte moderna, quando l’operazione che confonde l’originale e il falso, e prende maliziosamente in contropiede la «doxa» dell’originalità, si applica a delle opere che si presentano come semplici repliche meccaniche, o in cui il principio stesso di creazione o di fabbricazione si fonda appunto sulla possibilità di riproduzione. È il caso delle stampe di Andy Warhol, che non sono altro che volgari serigrafie, ma che, lungi dall’essere vendute come tali, raggiungeranno quotazioni altissime, che una pittura su tela non avrebbe mai raggiunto. In questo caso, dov’è l’originale, dov’è la copia?

Naturalmente, è ben noto che la riproduzione è parte integrante della storia dell’arte. Le stampe dette d’arte riproducono in trenta o quaranta esemplari numerati l’immagine incisa sulla lastra. La qualità dell’impressione varia, e detta il prezzo della stampa; le prime stampe sono più fresche, le ultime di qualità inferiore, quando il rame si è smussato sotto il rullo della pressa; ma occorre un occhio esercitato per riconoscere e distinguere la qualità delle prove di stampa. Si può anche riprendere la lastra originale per assicurare un tiraggio superiore ma di minore qualità. Nel caso di un processo di riproduzione povero come la serigrafia, come decidere del prezzo e del valore di un Andy Warhol? L’imbroglio è tale che, nell’incapacità di esprimere un giudizio, un comitato Andy Warhol si è autoistituito nel 1995 come l’unico abilitato all’autentificazione, l’unico avente il diritto di dichiarare vere o false le opere sottoposte al suo giudizio.

Ma poi, davanti alla moltiplicazione delle filiere dei falsi Warhol, il comitato si è dissolto, ha sospeso le proprie attività, e i proprietari di opere di Warhol non sanno più se hanno tra le mani dei multipli stimati tra 4.500 e 20mila dollari o delle opere uniche stimate anche 5 milioni di dollari. Nel caso di Max Ernst, troviamo dei falsi più belli delle opere vere, dei capolavori sconosciuti che suscitano le esclamazioni di ammirazione dei migliori specialisti; nel caso di Andy Warhol, delle opere vere che son false come dei falsi, e mettono in crisi l’autorità del comitato incaricato di giudicarle. Potremmo aggiungere una terza categoria, a proposito della quale non ci si può pronunciare sulla veracità o la falsità. È il caso dei seicento disegni attribuiti a Francis Bacon, apparsi d’un colpo sul mercato qualche anno fa e apparentemente provenienti dall’eredità del suo ultimo amante. Si tratta di un esempio opposto a quello dei Picasso offerti in dono ai musei di Francia. In questo caso non sono gli eredi a proclamare false delle opere che gli esperti giudicano vere, ma è l’erede che presenta come vere delle opere che i maggiori specialisti di Bacon giudicano false. Nel gennaio 2012 avrebbe dovuto tenersi un colloquio al Courtauld Institute of Art di Londra per tentare di sbrogliare la matassa. Ma il colloquio è stato annullato. Prudenti, i partecipanti avevano domandato l’immunità giuridica...

L’imbarazzo infatti è tale che ormai nessuno specialista, nessuno storico, rischia di esprimere la propria opinione, il proprio giudizio su un’opera che si presume conosca meglio di tutti, per timore di essere soggetto a un processo penale, di essere accusato di denigrare l’opera o incolpato di diffamazione, di negligenza o addirittura di frode. Nessuno storico, nessun commissario di esposizione ormai rischierà di basarsi sull’autorità, sinora giudicata indiscutibile, dei cataloghi ragionati, per richiedere il prestito di un’opera. E ricorrerà a delle sottigliezze linguistiche, a delle distinzioni terminologiche: per evocare un’opera si dirà di un disegno di Bacon che è «attribuito» all’artista, e non di mano dell’artista.

L’originale sconosciuto Per secoli e secoli l’opera d’arte è stata un prototipo, di cui la perfezione formale e il rigore iconografico permettevano appunto la riproduzione e la diffusione. L’opera era realizzata il più delle volte a più mani, e non da una sola mano, unica e inimitabile; era inoltre diffusa, copiata, riprodotta, adattata, attraverso lavori di atelier, che mettevano in circolo il modello in regioni o paesi interi. Parlare di prototipo significa usare deliberatamente un vocabolario religioso che risale a Bisanzio e alla controversia sulle immagini: il prototipo, che si fonda su un Cristo che è a immagine e somiglianza («eikon») di Dio, permette la riproduzione all’infinito dell’immagine che ne è al tempo stesso l’idea e la forma. La somiglianza è identità. L’adorazione dell’immagine è rivolta al prototipo. Non siamo qui nel campo del gusto («delectare») né del sapere («docere»), ma nel campo della credenza religiosa. L’arte moderna è una fede. Da qualche anno questa fede vacilla, e la moltiplicazione delle dispute sui falsi e sugli originali è il sintomo di questa crisi, per vari aspetti analoga a quelle che hanno scosso il mondo cristiano, al tempo delle iconoclastie, da Bisanzio alla Rivoluzione francese. Nel 1968 è nato ad Amsterdam il Rembrandt Research Project. Composto da un piccolo numero di specialisti, si è dato il compito di studiare il corpus di Rembrandt. Si tratta di una società che saremmo tentati di definire segreta, che si incarica di braccare i falsi Rembrandt, di togliere loro l’attribuzione, di farli tornare nell’ombra. Tra le disattribuzioni celebri vi sono «L’uomo dal casco d’oro» dei musei di Berlino e il «Cavaliere polacco» della Frick Collection di New York. Il problema è che le due opere sono autentici e ammirevoli capolavori, e non si sa a chi attribuirli, a una mano che sarebbe uguale a quella di Rembrandt senza tuttavia essere quella di Rembrandt...

Negli ultimi anni abbiamo assistito alla moltiplicazione delle disattribuzioni e delle riattribuzioni. Così il «Colosso» di Goya non sarebbe più di Goya, ma di un allievo. Ma il Museo del Prado, all’origine di questa disattribuzione, si trova ora a essere perplesso quando uno storico dell’arte spagnolo, che fu conservatore al Museo, Matías Díaz Padrón, afferma, dopo vent’anni di studi, che la versione delle «Meninas» di Velázquez conservata nelle collezioni del National Trust, e sinora attribuita al genero di Velázquez, sarebbe in effetti della mano del maestro. Versione che il Prado contesta, preoccupato di mantenere l’unicità della tela di cui si inorgoglisce...

Nel mezzo di queste dispute di esperti ci troviamo in piena fantasmagoria, analoga e parallela alla fantasmagoria dell’arte contemporanea che ci induce ad accettare il fatto che pastiglie multicolori siano vendute a qualche centinaio di migliaia di euro purché siano della mano di Damien Hirst. La fede cieca si muta in magia nera. Magia della mano. Magia della credenza in un genio incomparabile, fascino del fare singolare, lavori interminabili degli specialisti sulla mano, mano unica, quadri dipinti a due mani, a più mani, lavori d’atelier, di scuola, copie... Dall’epoca romantica siamo stati immersi nella follia del singolare, di «quel che non si vedrà mai due volte», della mano incomparabile, del creatore ineguagliato. Mano di gloria, mano incantata, membro fantasma... Sono fantasmagorie alla Gérard de Nerval, alla Edgar Allan Poe, quelle che alimentano il culto dell’ego ipertrofico dell’artista d’avanguardia, dell’artista detto contemporaneo, più contemporaneo dei suoi stessi contemporanei, l’incarnazione del genio senza pari.

Fantasmagorie che nutriranno più tardi la sensibilità e il pathos dei moderni, dominati dal terrorismo della novità, dal feticismo della firma, dall’onnipotenza dell’artista che sfugge alle leggi umane, e finalmente dall’inflazione irrazionale del mercato delle opere dette «originali». Le opere antiche, intanto, subiscono l’assalto del tempo e gli attacchi che la nostra ignoranza commette contro di loro.

Monterchi è un villaggio non lontano da Arezzo. Ai suoi piedi, un po’ in disparte, si trova il cimitero, e al suo ingresso una cappella. Su un muro della cappella si trovava un tempo un affresco di Piero della Francesca, detto la Madonna del Parto. Raffigura la Vergine, in piedi, solida come una paesana e maestosa, che schiude delicatamente con un dito della mano destra l’apertura della lunga veste blu, rigonfia del corpo del bambino nel ventre materno e aperta come un melograno arrivato a maturità. La leggenda dice che è in ricordo della propria madre, sepolta nel cimitero del villaggio, che Piero della Francesca, il figlio della Francesca, avrebbe dipinto quell’affresco che illustra non solo il dogma dell’incarnazione ma anche la fede nella resurrezione dei corpi. Le effigi di donne col bambino, dalle dee madri dell’Anatolia a quelle della Roma antica e fino ai giorni nostri, sono spesso legate ai luoghi dove si rispetta la morte: si trovano all’ingresso delle catacombe o presso le sepolture. Si dice anche che per secoli le giovani donne di Monterchi e dei paesi vicini venivano a contemplare l’affresco quando stavano per partorire, e domandavano il soccorso della Madonna.

Quando sono tornato a Monterchi, l’affresco era stato staccato dai muri della cappella, all’ingresso del vecchio cimitero. Ed era stato rimontato sui muri della scuola del villaggio. La scuola è un edificio di stile fascista, e la Madonna di Piero è stata messa sotto vetro, incorniciata e illuminata in modo tale che ormai somiglia alla proiezione di una diapositiva su uno schermo. Non si può più riconoscere la sua natura di affresco, e nemmeno distinguere se si tratta dell’originale o di una riproduzione. La riproduzione sarà d’altronde disponibile alla libreria. Perché nel frattempo gli ampi spazi ormai inutilizzati della scuola sono stati trasformati in shop, come è scritto, negozi di souvenir e di «prodotti derivati». Le masse di turisti che si riversano dagli autobus hanno rimpiazzato le processioni delle giovani donne che imploravano una gravidanza o un parto felici. Il tasso di natalità nel frattempo è caduto quasi a zero, ed è da molto tempo che la scuola non risuona più degli strilli degli scolari. Spostata, denaturata, che cosa diventa un’opera d’arte quando al termine di un pellegrinaggio non è altro che un’immagine dallo status incerto, come un poster o una riproduzione, priva di identità e di destinazione, spogliata delle virtù magiche che le attribuivano i fedeli, ma anche privata del rispetto della sua natura materiale d’opera d’arte, ridotta a non essere altro che il supporto contingente della nevrosi del turismo di massa?

Quel che è capitato alla Madonna di Monterchi si ritrova in luoghi che avremmo creduto più canonici. «Qualcosa di strano è successo agli Ambasciatori di Holbein, alla National Gallery di Londra», osserva una visitatrice. «Ecco, il quadro ha perso la profondità, la dinamica fluida dei pigmenti non c’è più. Adesso è semplicemente una superficie liscia [...]». E questa superficie è quasi identica al poster che si era procurata qualche anno prima alla libreria del museo...
Quante volte noi professionisti dei musei abbiamo dovuto constatare i danni compiuti da certi restauratori accaniti a sverniciare le velature, a scarnificare le carni, a spogliare le figure dei loro veli, dei loro abiti, per scorticarli vivi, le Danae, le Deianire e le Veneri come i grossolani Marsia, la carne a vivo, a distruggere quegli strati trasparenti di vernice misericordiosi per i contrasti di tono a volte troppo bruschi, a gettare su paesaggi un tempo soffusi, dorati, trasparenti, la luce cruda della sala chirurgica che illumina il massacro, per finire con una sorta di ultima «stiratura» abusiva e fare della pittura un carnaio sul quale va steso un sudario, la tela cerata finale che ridurrà l’opera dipinta alla propria riproduzione, di cui si rimpiangerà per sempre l’originale perduto.
Che cosa vuol dire un’opera vera diventata un falso?

E che cosa vuol dire un falso che diventerebbe più vero del vero? A Venezia, la Fondazione Cini ha riaperto il refettorio del convento palladiano di San Giorgio Maggiore. Refettorio che era stato snaturato quando Napoleone aveva fatto staccare dal muro «Le nozze di Cana» del Veronese per arricchire il Louvre. È stato deciso, nell’attesa che la Francia restituisca questo capolavoro a Venezia, di farne una replica. Di dimensioni uguali all’originale, la perfezione della resa è tale che è praticamente impossibile stabilire a occhio nudo se si tratti di una riproduzione. Lo spessore e la profondità sono qui restituiti al punto che si possono ammirare i tratti del pennello del pittore, i grani deposti dai pigmenti, ma anche le incrinature, le fessure, le asperità lasciate dallo stacco delle strisce di tela che compongono l’opera. L’illusione è perfetta, e si è deciso di lasciare la copia nella sede d’origine del quadro, in modo da ridare un senso al refettorio. «Le nozze di Cana» sono quindi tornate al loro posto. Là dove Veronese le aveva destinate, illuminate di nuovo dalla loro vera luce, naturale e ammirevole, la luce della laguna, attraverso la vetrata di sinistra. Hanno quindi ritrovato il loro fine: non solo prolungare lo spazio fisico del refettorio, ma prolungare la cena dei monaci con una cena tutta spirituale. Il loro senso risplende nuovamente, come splendono i colori più vivi e più giusti, più fedeli di quelli dell’originale deteriorato che si può vedere al Louvre. Perché, anche se si tratta solo di una copia, è cosi perfetta e cosi felicemente installata che la gioia che ci procura è superiore a quella che ci procura la tela originale, esposta in una misera luce, tra altri quadri, rovinata, decolorata, alterata, posta troppo in basso in un bric-à-brac in cui la «Gioconda» è il pezzo forte...
Si tratta di un avvenimento considerevole. Ci obbliga a riconsiderare, a capovolgere, a rifiutare il dogmatismo che pesa sulla nostra sensibilità e sulle nostre coscienze sin dall’epoca del Romanticismo.

Che cosa è preferibile, l’originale depositato in un museo e che ha perso la sua destinazione, oppure la sua copia, che ritrovando la destinazione dell’originale finisce per ritrovarne il senso? Che cosa vale di più, l’opera snaturata e degradata, o la copia superiore all’originale, a cui il luogo ha ridato la sua ragion d’essere?
Al Louvre sono iniziati i lavori del restauro della Nike di Samotracia. Ma la Vittoria che per secoli ha troneggiato sullo scalone d’onore, e che consideriamo uno dei più grandi capolavori dell’antichità, forse non è altro che un’accozzaglia di pezzi sparsi, con delle aggiunte di gesso per colmare e mascherare le lacune. Sappiamo che la ricostruzione del 1883, a partire dai frammenti ritrovati vent’anni prima, proponeva un’opera per molti aspetti problematica. Un restauro fondamentale, se fosse possibile, modificherebbe per esempio la forma e la fissazione delle ali, e l’aspetto generale della statua sarebbe ben diverso da quello che abbiamo ammirato per più di un secolo e che ci è ormai familiare. La maggior parte delle opere dell’antichità greca sono conosciute solamente attraverso le loro copie, ellenistiche o romane. Gli originali sono perduti. A volte le interpretazioni iconografiche di tale o talaltro frammento sono fantasiose, come quando un discobolo diventa un guerriero ferito. Bisognerebbe ripetere a proposito delle opere d’arte quello che Luciano Canfora dice a proposito dei capolavori della letteratura: «Consideriamo a torto come certa l’esistenza di un originale, che si presenta al senso comune come dotato di un indiscutibile carattere di unicità. Questo monismo, o monoteismo testuale, è stato da lungo tempo sottoposto alla critica nel campo delle letterature dette classiche [...].
Ma vi sono anche numerose opere moderne» ci dice Canfora, «per le quali la storia del testo riposa, a ben vedere, su un originale instabile, certamente non unico, e persino, in un certo senso, provvisorio [...]». L’originale dello Strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde, di Robert Louis Stevenson, è infatti la copia di un manoscritto perduto. Il caso è uguale a quelle grandi opere dell’antichità, dai discorsi di Demostene ai trattati di Aristotele, di cui noi conosciamo il corpus soltanto attraverso le elaborazioni, le interpretazioni realizzate prima dagli allievi, poi dai copisti. Canfora arriva a dire che il vero autore di un’opera è il suo copista, in assenza di un archetipo ormai scomparso da lungo tempo. Si potrebbe anche dire, in altri termini, che un’opera esiste soltanto attraverso la lettura che ne è fatta. È il lettore che ricrea, a ogni lettura, un’opera che senza di lui non esisterebbe. Un testo non è che la somma delle sue interpretazioni.

Il culto delle reliquie Si capisce l’esitazione, il movimento di arretramento, e infine la ragione per la quale rifiutiamo questi progetti di ricostruzioni in facsimile... Che vuol dire facsimile, copia identica? Per quanto perfetta sia la riproduzione, per quanto alterato sia l’originale, quest’ultimo possiede una qualità, se non una virtù, una magia: la magia della reliquia. Per vedere, bisogna toccar con mano. Toccare le ossa, vedere il sangue liquefarsi, come a Napoli quello di san Gennaro. L’originale, conservato preziosamente in un museo o in una collezione privata, possiederebbe, quale che siano la povertà delle sue forme o la volgarità del contenuto, un’«aura» che la copia dissipa, distrugge, spegne; un’aura che lo rende unico.
Si preferiranno quindi «Le nozze di Cana» del Louvre alla versione realizzata a Venezia, nonostante il quadro sia danneggiato, male illuminato e posto in un contesto che lo denatura, perché si sa, o si crede di sapere, che è stato realizzato dalla mano dell’artista.

Il visitatore di un museo è superstizioso, credulone e ingenuo quanto il fedele di un tempo, che cercava, nel simulacro, nella pittura o nella statua, la presenza della reliquia che le rendeva degne di venerazione: un pezzetto del legno della vera croce, una goccia del latte della Vergine, o del sangue del Signore, una scheggia del femore di un martire... Quel che era la reliquia all’opera antica, sarà per l’opera moderna l’ombra della mano dell’artista. Ma la reliquia può prendere una tale importanza da finir per rendere superflua la presenza dell’opera che la conserva, e può darsi che si presenti sola, come un oggetto insolito che abbiamo difficoltà a identificare. L’ultimo, l’estremo stadio sarà raggiunto quando la presenza dell’artista moderno non sarà più richiesta solamente nella forma della presenza nascosta della mano, ma nella forma più diretta: simile al Dio che offre il proprio corpo agli umani, l’artista offrirà in dono gli scarti, le scorie del proprio corpo sotto il nome di «opere d’arte», scorie che saranno venerate come reliquie. Cosi gli umori, le secrezioni purulente, i sudori, lo sperma, il sangue, i peli, i capelli, le unghie, l’urina e infine gli escrementi saranno proposti all’adorazione di quei nuovi fedeli che sono gli amatori dell’arte contemporanea. Per citare qualche nome: Marcel Duchamp, Salvador Dalí, Piero Manzoni, Kurt Schwitters, Louise Bourgeois, Gina Pane, Günter Brus, Hermann Nitsch, Andres Serrano, Wim Delvoye... la lista è senza fine. Ma se le reliquie della Croce e il sangue dei santi sono sacri, nella teologia del Medioevo le fanere, i peli, i capelli, le unghie, le corna sono gli attributi del diavolo. Il termine «fanere» contiene l’idea di apparire, farsi vedere, essere visibile, il fenomeno, e quindi rientra nell’ambito della visibilità, e se vogliamo, dell’arte. Nell’arte contemporanea, le fanere sono diventate non le reliquie di una religione dell’estetica, ma i feticci di un’autoadorazione dell’uomo; il supporto di una magia, non divina, bensì diabolica, un culto che l’uomo rende all’uomo manipolando quegli stessi prodotti singolari del corpo che servivano un tempo alle magie animiste. Ma supponiamo che si rompano le ampolle o che si fendano le scatole di latta che contengono queste sante reliquie dell’avanguardia: che cosa dovrà fare il restauratore per restaurarle? Che altro prodotto potrà utilizzare, che non provenga dalle sacre viscere dell’artista?

Immaginiamo un futuro in cui, per verificare l’autenticità di una lattina di merda di Manzoni o di un bicchiere di piscia di Serrano, bisognerà procedere a un’analisi del Dna, come un tempo per una tela di Van Gogh di dubbia autenticità si ricorreva all’analisi chimica per i pigmenti e alla grafologia per la firma?
«Un testo non è altro che la somma delle sue interpretazioni». Possiamo paragonare questa formula provocatrice di Canfora a quella altrettanto provocante di Duchamp: «È lo spettatore che fa il quadro»? È diventata la formula stessa della modernità: in assenza di un canone, di regole accademiche, come dell’esigenza di obbedire a un’iconografia religiosa o politica, l’opera moderna non si inscrive in una storia. Solo la soggettività dello spettatore le conferisce un’esistenza, uno specchio. Soggettività contro soggettività: il pelo, i ritagli di unghie, la macchia di sperma dell’artista X o Y attestano della sua realtà come l’impronta digitale su un documento di identità biometrico. Spetterebbe a me, allo spettatore, conferirle il valore di «opera d’arte». Qui culmina l’ego arrogante dell’uomo moderno, uomo senza eredità, ma che crede di attribuire il valore supremo di opera d’arte a oggetti da nulla provenienti da uno sconosciuto...

È precisamente perché l’Avanguardia si è costituita come l’espressione di un individuo totalmente immerso nel presente, senza radici, separato dalla storia, che la sola possibilità che rimane agli artisti che pretendono di incarnarla è appunto di esibire il loro passaporto biometrico. La dimensione ereditaria, genetica, senza la quale l’individuo non può venire al mondo non sarà più espressa dal sapere acquisito nel proprio mestiere, un tempo trasmesso da un atelier all’altro, dal maestro all’apprendista, la cultura, l’epigenetica, ma dalla formula biologica, singolare, del suo corpo e delle sue secrezioni.
Qui sta il punto di rottura fondamentale della modernità. Il copista nel campo testuale secondo Canfora, come il restauratore o il falsario nel campo delle opere d’arte, si inscrivevano scrupolosamente, duramente, lungamente, in una storia, in una tradizione, in una cultura. Non si può comprendere che i più grandi esperti, i migliori storici dell’arte e i migliori specialisti, gli occhi più esercitati si siano tutti lasciati ingannare nelle recenti vicende di falsi, Knoedler o Beltracchi, se non si considera questa evidenza apparentemente scandalosa: il falsario possiede una competenza comparabile a quella del restauratore, nelle conoscenze e nel «mestiere». A un tale livello di artificio diventa impossibile negare che i falsi sono realizzazioni notevoli quanto quelle prodotte dall’artista, che ha fornito, qui come altrove, solamente un prototipo, suscettibile di infinite variazioni.

Il mondo dell’arte e il suo lutto impossibile: l’ingresso dei feticci Tutto considerato, oserei proporre l’ipotesi che il procedimento che da una ventina d’anni conduce a fabbricare quindi a vendere i prodotti di un’arte detta «arte contemporanea», a prezzi illimitati ma secondo criteri di valutazione inesplicabili, somiglia stranamente al meccanismo che porta a immettere sul mercato falsi capolavori dell’arte moderna facendoli riconoscere come autentici. Già la serigrafia di Andy Warhol cadeva in un vacuum semantico tale che solo l’abilità del critico d’arte poteva darle una forma, un nome, attribuirle delle qualità o delle essenze, far parlare l’opera, insomma, come la veggente fa parlare le carte. La scienza dello storico associata al rigore del funzionario statale, la dissertazione prolissa del critico ventriloquo, sono così diventate la parola d’ordine per fare accettare oggetti di varia natura, dal mucchio di vestiti buttati a terra nella navata del Grand Palais di Parigi da Christian Boltanski fino al dito medio eretto da Maurizio Cattelan davanti alla Borsa di Milano. Sarà sempre possibile dimostrare che questi oggetti, che questi gesti hanno un’origine, uno sviluppo, una loro logica, che sono inscritti nella storia, al seguito di Marcel Duchamp e di Picasso per esempio, e quindi attestarne la legittimità. Sono arrivato a pensare che l’arte contemporanea è interamente composta di falsi. Se questi conflitti sulla veridicità, l’originalità, la falsità, la provenienza delle opere sono in questi tempi di un’attualità fracassante, è evidentemente a causa dei prezzi astronomici delle opere sul mercato. I prezzi delle opere di Damien Hirst o Jeff Koons hanno raggiunto in pochi anni cifre tali che nessuna spiegazione razionale può renderne conto. Non siamo più nel registro del gusto (si tratta di opere francamente brutte o addirittura repellenti) e neppure trattasi di rarità: sono opere infinitamente riproducibili. Non hanno in realtà alcuna esistenza, e non hanno un «valore» se non attraverso il mercato che le propone.
Come il mercato dell’arte, fondato da sempre sul lungo termine, abbia potuto incrociare il mercato della finanza, fondato sul brevissimo termine, al punto da fondersi con esso, costituisce l’enigma dell’arte contemporanea.

Acquisire un’opera d’arte, fino a qualche anno fa, voleva dire scoprirla, nelle sale discrete e silenziose di una galleria; vederla e rivederla prima di prendere una decisione. L’opera restava per anni di proprietà del collezionista. Se doveva essere venduta, capitava che la plusvalenza fosse considerevole, ma, calcolata sul periodo di tempo in cui era stata nelle mani del proprietario, non era per nulla eccezionale. Le opere d’arte contemporanee, proposte nelle sale affollate delle case d’asta, sono apprezzate in funzione di una redditività elevata e quasi istantanea e sono rivendute spesso dopo qualche mese o qualche settimana, giusto il tempo di cambiar di mano. Ubbidiscono dunque a una logica che è quella dei mercati finanziari, che oggi funzionano sull’estrema rapidità delle transazioni, con l’aiuto di programmi informatici che permettono di effettuare gli scambi a grandissima velocità. Come ha potuto l’opera d’arte, un tempo «fatta per l’eternità», diventare un oggetto prodotto a gran velocità, moltiplicato a piacere, null’altro che il supporto indifferente di operazioni speculative fondate su algoritmi completamente sconnessi dal mondo reale?
Il «Balloon Dog» di Jeff Koons, in acciaio inossidabile di quattro metri di altezza, prodotto con un procedimento che esclude ogni intervento della mano dell’artista, che si è limitato a fornire il modello, il palloncino per bambini, è stato tirato a cinque esemplari, identici, e ciascuno è stato venduto fra i 35 e i 55 milioni di dollari.

È evidente che in questo caso, come per le serigrafie di Warhol, le nozioni di originale e di copia sono prive di senso. Ma direi di più: è proprio l’assenza di senso che permette di proporre questi prodotti a dei prezzi che non hanno limite. La perfetta riproducibilità tecnica dell’opera permette una miracolosa ubiquità, ormai presente, identica a se stessa, in vari punti del globo. Il procedimento di Koons è già stato utilizzato tuttavia, in modo più artigianale, da scultori più classici, e con materiali più tradizionali. Ancora oggi le fonderie di Pietrasanta sopravvivono al loro declino grazie agli ordini di Botero, animali anche in questo caso, ma gatti, ingranditi meccanicamente per raggiungere dimensioni monumentali a partire da piccoli bozzetti di cartone o di gesso.
Il carattere derisorio di tali produzioni è sottolineato dalla scelta della figura rappresentata. L’immagine acheiropoietica della Veronica ci tendeva il volto di un Dio che si era fatto uomo per noi. Koons ci propone l’immagine infantile e derisoria di animali da compagnia, di giocattoli da carnevale ingigantiti e smisurati, che propongono alle élite finanziarie che li acquistano il riflesso della loro vanità di nouveaux riches.

Non si tratta più dei prodotti di un’idolatria nata da un culto deviato delle immagini. Si tratta qui di feticci. Il feticcio è l’oggetto artificiale (dal latino facticium) che si sostituisce al possesso dell’essere amato. Il feticcio, oggetto di desiderio parziale e inanimato, suppone l’assenza del corpo intero e reale del desiderio, o meglio ancora, la sua sparizione. L’innamorato desidera il corpo dell’amante e gli rende omaggio; se lei è assente, amerà guardare i suoi medaglioni, i suoi ritratti dipinti o scolpiti. Ma di questo tipo di rituale, il feticista non conserverà che il ciuffo di capelli, la scarpa, il liquido giallo delle sue emissioni o il giocattolo infantile, il peluche che metterà nel letto, al suo posto...

Alla televisione, alla radio, ci ripetono che un tale non ha potuto «elaborare il lutto» di un essere amato scomparso perché il suo corpo, il suo cadavere, non è stato ritrovato. Il lutto sarebbe impossibile in assenza della prova materiale del decesso. Questo sentimento popolare ha almeno il merito di ricordarci il potere dell’oggetto amato, non la sua immagine, non il ricordo, ma il suo corpo, la sua presenza reale, la sua realtà materiale, in quella che Freud chiamava «elaborazione del lutto».

Jean Clair (1940), scrittore, saggista, storico dell’arte e curatore, è conservatore generale del Patrimonio francese e membro dell’Accademia di Francia dal 2008. È stato tra il 1977 e il 1980 professore di Storia dell’Arte all’Ecole du Louvre. Ha curato nel 1980 la mostra «Les Réalismes», nel 1995 la Biennale di Venezia e nel 2005 la mostra «Mélancolie». Ha diretto il Musée Picasso di Parigi.

Ora, non resta nulla del corpo della pittura, di quel corpo un tempo adorato, venerato, ammirato, riprodotto, ricopiato, restaurato con amore. L’arte è morta, ma non ci resta nessuna prova materiale della sua scomparsa che ci potrebbe permettere l’«elaborazione del lutto». Nei prodotti che ci propone l’arte contemporanea non rimangono nemmeno dei residui, dei frammenti, delle reliquie. Nient’altro che quei feticci ridicoli, quei palloni gonfiati che ci propongono le fiere dell’arte e i palazzi veneziani. Al feticismo sessuale come descritto da Freud, delle produzioni corporee, dei capelli, peli, e altre immondizie, si aggiunge qui il feticismo della merce, come l’intendeva Marx: l’opera d’arte situata al livello degli scambi di prodotti indifferenti, pagati con una moneta irrisoria, dalla conchiglia primitiva all’ordine di acquisto elettronico, che non garantisce il possesso di un’opera preziosa ma di una merce svuotata di ogni valore proprio, una sorta di cartolarizzazione del nulla.

Gli Ebrei adoravano il vitello d’oro. Noi adoriamo i cani, i gatti, i vitelli di Koons, Botero e Hirst. Chi sarà il Mosè che spezzerà davanti a loro le Tavole della legge, scendendo da un monte Sinai? Ma esistono ancora una legge, dei comandamenti, un ordine da spezzare? Mosè non era forse sceso dal monte Sinai per proibire al suo popolo di fabbricare immagini? 

Letto nel convegno «Lo specchio della realtà» alla Fondazione Zeri, Bologna, 23-24 ottobre 2013
Il falso specchio della realtà, a cura di Anna Ottani Cavina e Mauro Natale, 232 pp., ill. col. e b/n, Allemandi, Torino 2017, € 25,00

Jean Clair, 13 ottobre 2017 | © Riproduzione riservata

Articoli precedenti

Dall’ultimo libro di Jean Clair, uscito da poche settimane in Francia e dedicato agli amici, pubblichiamo in anteprima il ritratto di Gianadda, scomparso lo scorso 3 dicembre

«Il Borghese incoraggia le belle arti (...). La sua intima aspirazione è mettere il Bello a terra, al di sotto della peggiore immondizia, e in queste basse opere nessuno puo' superare i porci artisti» (Léon Bloy)

Elogio del falso in una bassa epoca | Jean Clair

Elogio del falso in una bassa epoca | Jean Clair