Image
Image

Due musei, una direttrice. Polifonica, biocentrica e sinergica

Image

Franco Fanelli

Leggi i suoi articoli

Carolyn Christov-Bakargiev presenta il suo programma per il Castello di Rivoli e per la Gam, dove mostre basate su nuove interpretazioni metteranno in relazione due collezioni, due identità e due epoche diverse perché «la storia dell’arte la scrivono anche i curatori»

Da gennaio Carolyn Christov-Bakargiev si è ufficialmente insediata alla direzione del Castello di Rivoli - Museo d’arte contemporanea e della Gam, Galleria Civica d’arte moderna e contemporanea di Torino. Per la cinquantottenne curatrice (al suo attivo, tra le ultime grandi rassegne, dOCUMENTA a Kassel nel 2012 e la Biennale di Istanbul nel 2015), quello a Rivoli è un ritorno: qui tra il 2002 e il 2008 era stata capocuratore e nel 2009 direttore ad interim. Al Castello succede a Beatrice Merz e alla Gam a Danilo Eccher. Resta aperto, tuttavia, l’iter amministrativo per la fusione delle due istituzioni, che confluiranno nella Fondazione Torino Musei, un processo, spiega la direttrice, «in corso da prima del concorso indetto per la direzione.

Amministrativamente non è ancora perfezionato, credo per una divergenza di opinione sulla soluzione al problema dei lavori straordinari per il Castello di Rivoli. So che dal 1999 al 2015 questi lavori sono sempre stati eseguiti. Ida Gianelli, direttrice ai tempi in cui ero curatore in capo al Castello, seguiva attentamente la manutenzione ordinaria e straordinaria; si faceva periodicamente quello che si poteva fare all’interno di una spesa equilibrata. L’edificio appartiene al Comune di Rivoli, il Museo è legato storicamente alla Regione Piemonte e la Fondazione Torino Musei è stata creata per migliorare e agevolare la gestione di alcuni musei cittadini quali Palazzo Madama, Gam, Borgo Medievale e Mao-Museo d’Arte Orientale. Sembra un dettaglio ma non è così quando si sta parlando di qualche milione di euro».

Si parla di 4 milioni...

Questa è una stima complessiva. Ma la cifra è da spendere oculatamente e a porzioni, per favorire la fruibilità del museo. La questione intorno a queste decisioni non mi concerne perché riguarda Rivoli, Torino e la Regione.

Ci sono anche problemi legati alla manutenzione delle opere?

Come direttore di museo una delle prime cose che ho fatto è stata studiare bene lo stato di conservazione delle opere. Non ritengo ci sia una qualche mancanza riferibile al passato; semplicemente, forse per ragioni di fondi, il normale lavoro di conservazione delle opere si è un po’ accumulato. Quindi prima abbiamo messo in cantiere uno studio dello stato di conservazione della collezione di opere «time best» (video, film ecc. Ndr), alcune delle quali erano state acquisite quando io ero curatrice in capo. Ora abbiamo da poco completato il restauro del lavoro di Janet Cardiff e George Bures Miller, riallestito nella sala dove fu inizialmente collocato dagli artisti, e questo è stato abbastanza impegnativo. Dal punto di vista delle altre opere abbiamo in corso, per esempio, il restauro del neon nel cemento di Giovanni Anselmo, e diverse altre opere di Mario e Marisa Merz, oltre a un lavoro stupendo di Jan Vercruysse. Una questione di conservazione interessante è quella legata all’opera di Allora & Calzadilla, il pianoforte bucato nel quale il pianista entra e suona al contrario Beethoven («Stop, Repair, Prepare: Variations on Ode to Joy for a Prepared Piano (Fermati, ripara, prepara: variazioni all’Inno alla Gioia per un pianoforte modificato)», 2008, Ndr). Questo lavoro necessita di un esperto capace di suonare al contrario Beethoven e quindi gli artisti hanno addestrato allo scopo una sola persona che abita a Milano e che è un musicista eccellente; però per la conservazione dell’opera occorre ampliare il numero delle persone che sanno eseguire quel pezzo, perché non si sa mai dove andranno a finire Allora & Calzadilla fra dieci o vent’anni. Quindi per impedire che quest’opera sia a rischio ho messo in piedi un workshop, un laboratorio che faremo al Castello di Rivoli non appena possibile, con il musicista di Milano che insegnerà a tutta una serie di altre persone più giovani come eseguire quel pezzo. Questo è un esempio di quanto sia diverso il pensiero sulla conservazione dell’arte contemporanea. 

È vero che il Castello di Rivoli è in crisi di visitatori?

No, non è vero. Ho fatto le mie verifiche e dal punto di vista della vendita dei biglietti c’è stato un incremento nel 2015. Con l’impegno eccellente di un piccolo staff interno, è stato svolto un grande lavoro. Pur senza grandi mostre, il numero di visitatori si aggira ancora sulle stesse cifre degli anni in cui ero capocuratore, cioè intorno ai 100mila ingressi. Forse bisogna pensare a incrementare questo numero, sebbene non si possa pensare che un museo che non è ubicato al centro di una città possa avere lo stesso numero di visitatori di un museo al centro. L’Henry Moore Institute non avrà mai lo stesso numero di visitatori della Tate Modern, e lo stesso si può dire, in Danimarca, del Louisiana Museum (a Humlebaek, a circa 35 km dalla capitale, Ndr) rispetto a musei anche meno importanti ma che sorgono nel centro di Copenaghen. Ma questi musei, queste collezioni fuori dei centri urbani vanno curati anche in previsione di un futuro nel quale il desiderio di un nuovo rapporto con la natura o con l’ambiente crescerà. Per cui andare in Brasile a visitare il Centro d’arte contemporanea Inhotim che è in mezzo alla giungla è una cosa un po’ speciale, come andare alla «Spiral Getty» di Smithson a Salt Lake City: c’è qualcosa del pellegrinaggio nel visitare un grande museo decentrato. Ma il pubblico, o meglio i «partecipanti» al museo devono crescere anche in un altro senso. Occorre mantenere allestiti dei capolavori che si identifichino con un dato luogo. Per quanto riguarda Rivoli, riallestire «Abyss» di Doris Salcedo o «The sun has no money» di Olafur Eliasson adesso, oppure la sala di Michelangelo Pistoletto con «La Venere degli stracci», o quella di Reinhard Mucha, o la sala di Cattelan con «Novecento». È importante che questi musei decentrati abbiano in allestimento quasi permanente alcuni capolavori che diventino motivo di «pellegrinaggio». Ma il secondo versante molto importante è il rapporto capillare con il territorio, il contesto. Credo che il XXI secolo sia molto legato a questa visione secondo la quale ogni punto è il centro di una rete di relazioni e di sinergie molto forti. Per questo io sono particolarmente interessata a tutto ciò che succede nelle strette vicinanze di Rivoli, per quanto riguarda le espressioni culturali affini all’arte. Questo rapporto con un pubblico più vasto e non specifico dell’arte contemporanea è molto importante e poi esiste in Piemonte una serie di realtà che vanno dalle regge sabaude a collezioni private come La Gaia, la Fondazione Spinola Banna e attività come quelle promosse dalla famiglia Ceretto.

Come «governerà» i due musei?

Il primo punto importante, una direzione che ho sempre seguito dall’inizio del mio lavoro nei primi anni Ottanta, è che il nostro primo riferimento sono gli artisti e le opere. Per questo ho fatto approvare la costituzione di un Comitato di consulenza formato principalmente da artisti: Giuseppe Penone, Joan Jonas, William Kentridge e Lara Favaretto. Spesso quando curo le mie mostre invito qualche artista, in maniera del tutto informale, a darmi una mano, per dirmi che cosa pensano di un allestimento, ad esempio. Attualmente questo comitato riguarda Rivoli, ma quando sarà completata la fusione vorrei allargare questo gruppo di consulenza anche con figure che non fanno parte del mondo dell’arte, ad esempio Peter Galison, il direttore del Museo delle Scienze ad Harvard, una persona con la quale mi consulto molto. L’aspetto sul quale posso lavorare già adesso, essendo la direttrice di entrambi i musei, è la programmazione delle attività. Al Castello di Rivoli il 4 aprile apriremo una grande mostra di Giovanni Anselmo, la sua prima a Torino, nella Manica Lunga; contemporaneamente alla Gam si inaugurerà una piccola mostra curata da Gregorio Mazzonis e Maria Teresa Roberto dedicata a un’opera storica di Anselmo che era nel Deposito d’Arte Presente (un’associazione nata a Torino tra il 1967 e il 1968  a opera del collezionista Marcello Levi, del gallerista Gian Enzo Sperone e dell’artista Piero Gilardi, fondamentale per la prima affermazione dell’Arte povera, Ndr). Questa mostra farà parte di un ciclo dedicato a opere rare del passato in relazione a documenti di archivio. Ecco, questo è un esempio della sinergia tra i due musei, nel rispetto dell’identità della Gam che è anche un «repository», un luogo anche di raccolta, con un eccellente fondo di materiali di archivio; il pubblico della Gam interessato ad Anselmo potrà visitare il Castello di Rivoli e viceversa.

Oltre ad Anselmo che cosa offrirà il programma?

Ci sarà una personale di Ed Atkins, che tra la giovane generazione è già un faro per moltissimi artisti ancora più giovani. Atkins indaga la soggettività nell’esperienza quotidiana online e questo suo avatar, questo personaggio che quasi non riesce a uscire dal computer, antropomorfizza una sorta di stato d’animo che sta dentro al computer, un personaggio malinconico, che non sa come vivere l’amore, come vivere la relazione con il corpo, questo strano corpo. I bellissimi testi che fanno parte di queste videoinstallazioni non sono mai stati pubblicati, per cui pubblicheremo il primo catalogo importante a lui dedicato. Questa mostra prevede una collaborazione con la Fondazione Sandretto, dove sarà allestito un lavoro di Atkins. Poi in programma abbiamo una personale di Wael Shawky, che io ritengo l’artista giovane più importante del mondo arabo. A dOCUMENTA abbiamo mostrato per la prima volta il primo e il secondo lavoro della serie «Cabaret crusades» che narrano la storia delle crociate dal punto di vista islamico. Sarà la prima vera retrospettiva di Shawky, con opere nuove anche scultoree.

Che cosa rappresenta per lei, curatrice d’arte contemporanea, la cospicua collezione ottocentesca della Gam?

Sono molto interessata all’Ottocento. Se oggi uno dei fenomeni più vistosi riguarda la diffusione di fondazioni private, a cominciare dalla Sandretto Re Rebaudengo a Torino, una delle prime con la collezione Rubell di Miami, esse sono generalmente proiettate sull’arte contemporanea. Ma il museo pubblico, e questa è la grande risorsa della fusione tra Rivoli e Gam, può invece avere una visione metatemporale, una visione che affonda le radici nell’antichità o si proietta nel futuro più lontano. La fusione permette di lavorare anche con le collezioni dell’Ottocento in maniera sinergica rispetto al contemporaneo. Credo che la storia dell’arte italiana dell’Ottocento sia meno nota nel canone del Modernismo così com’è stato definito dai grandi storici dell’arte del XX secolo. Ma ciò che fa un curatore o uno storico dell’arte importante è creare la storia dell’arte: se Catherine David non avesse portato William Kentridge a documenta e io non lo avessi fatto esporre al Palais des Beaux-Arts a Bruxelles, la gallerista Marian Goodman non ne avrebbe conosciuto l’opera: lo stesso possiamo dire adesso di Adrián Villar Rojas, che molti hanno visto alla dOCUMENTA del 2012 da me diretta, e che a mia volta avevo scoperto alla Biennale di Venezia, dove rappresentava l’Argentina. Quello che voglio dire è che gli storici dell’arte, i curatori e i collezionisti e i committenti creano la storia dell’arte. Allora il nostro compito è anche di essere storyteller, di leggere in maniera nuova e innovativa la storia dell’arte. Uno dei miei desideri è studiare e fare delle mostre di artisti presenti nella collezione della Gam non così noti nella storia «canonica» dell’arte dell’Ottocento moderno.

Ad esempio?

Mi piacerebbe fare una mostra dedicata a Luigi Bistolfi, perché credo che la sua visione, contrariamente a quello che pensavano i futuristi, non fosse passatista; era una visione liberty-art nouveau molto aperta a un’idea dinamica e viva della scultura che un secolo dopo si vede nel lavoro di Penone, per esempio. Un altro è Pellizza da Volpedo: qui l’obiettivo è dimostrare che il cinema moderno non esisterebbe senza Pellizza da Volpedo, un pittore che Eisenstein ha guardato bene e che una delle correnti del XX secolo, cioè quella dei realismi socialisti o non, viene fuori anche dall’osservazione di quel momento e non da Courbet. Penso che se vado a scavare, anche Diego Rivera e i muralisti messicani hanno un debito verso Pellizza. Insomma: se noi non facciamo vivere il passato come qualcosa che è significativo in modi sempre diversi, il passato muore. Pensi che bello sarebbe curare la mostra di Pellizza da Volpedo insieme a William Kentridge, che lo ama molto.

Quali altre mostre ha in programma per la Gam?

Il programma espositivo per la Gam, rispetto a quello di Rivoli, è ancora in fase di approvazione. Oltre a portare avanti quello già stabilito sotto la precedente direzione, con le mostre di Braco Dimitrijevic e di Carol Rama, ho avviato il lavoro su due grandi mostre. Una s’intitola «Organismi» e mette in relazione l’attenzione verso la vita biologica e le forme organiche alla fine dell’Ottocento e nella nostra epoca. La domanda è: non sarà che il biocentrismo è una forma nuova di Liberty? Si vedranno, tra l’altro, i vasi di Gallé e gli acquari di Pierre Huyghe, con riferimenti anche all’architettura. In occasione di questa mostra penso di fare un’operazione inversa rispetto a quella di Anselmo e di allestire in concomitanza alcuni lavori al Castello di Rivoli, ad esempio il tavolo di Mario Merz con la frutta oppure un lavoro di Pierre Huyghe dedicato al viaggio in Antartide. Per l’autunno, se riuscirò a ottenere i prestiti (altrimenti slitteremo al prossimo anno), sto invece pensando a una mostra sul colore. Sarà un’interpretazione assolutamente diversa rispetto a tutte le mostre del XX secolo dedicate a questo tema, che erano basate sempre sulla teoria della percezione. La voglio fare perché ho scoperto finalmente dopo un anno e mezzo di ricerche le gouache originali che furono stampate nel libro Thought forms di Annie Besant e Charles W. Leadbeater, che contiene le prime immagini astratte della storia dell’arte. Sappiamo che Mondrian era un teosofista e quindi aveva questo libro, come penso anche Kandinskij, e non mi sorprenderei se fosse stato anche nella biblioteca di Balla. Certamente lo aveva Hilma af Klint (una pittrice svedese pioniera dell’Astrattismo ispirata da teorie filosfiche ed esoteriche, Ndr), adesso super riscoperta: una delle radici dell’Astrattismo moderno è all’interno delle teorie delle forme e del colore dei teosofi. Dapprima pensavo a una piccola mostra che per la prima volta avrebbe presentato le gouache originali, ma poi ho pensato che avrebbe potuto essere l’occasione per rivedere il tema del colore in una maniera più contemporanea. L’idea della mostra parte dal principio non antropocentrico che il colore appartiene soprattutto ai sistemi di sopravvivenza, ai sistemi ecologici non umani: la grande distinzione di toni di colore nella natura arriva con i fiori, e questi arrivano molto tardi nella storia del pianeta, più o meno quando i dinosauri si estinguono. Comunque la nostra capacità di distinzione dei colori è molto bassa rispetto ad altre specie, sebbene sui verdi siamo molto ferrati, probabilmente perché bisognava vagare nelle foreste, per cui vediamo 150 toni di verde, ma abbiamo pochissime capacità di distinguere i blu o i rossi. Collaborerò per questa mostra con Vittorio Gallese dell’Università di Parma, il neuroscienziato che ha scoperto il neurone specchio insieme a Giacomo Rizzolatti. La mia tesi è che siccome i colori e l’incredibile varietà di colori presenti nel contesto nel quale viveva l’essere umano non aveva senso biologico, non aveva utilità, il colore è quanto di più estetico, «inutile» e culturale ci possa essere e quindi da subito diventa la caratteristica precipua di ciò che le civiltà umane considerano arte, più della forma.

Gli spazi della Gam sono spesso criticati. Pensa a un ampliamento?

Così come si presenta dopo il restauro degli anni Ottanta non trovo l’edificio molto bello: le vetrate messe all’interno per chiudere quello che era uno spazio aperto di scale per ragioni di sicurezza, ad esempio, sono soffocanti. L’edificio, dopo quel restauro, ha aumentato la sua superficie espositiva e alcuni aspetti sono positivi, per esempio la creazione degli spazi espositivi al piano interrato. Però sono stati chiusi tutti i lucernari ai piani superiori e l’edificio aperto nel 1959 su progetto degli architetti Bassi e Boschetti non c’è più. Era una costruzione visionaria, sembrava un’astronave atterrata sulla Terra, un disco volante con vuoto interno focalizzata sulla luce. Era l’equivalente in architettura di un Lucio Fontana. Fu criticato perché aveva le pareti oblique, ma lo sono anche quelle del Guggenheim di New York. Se avessi la bacchetta magica avvierei un’operazione di ripristino dell’edificio del 1959, inserendo un’infrastruttura sostenibile e tecnologicamente aggiornata degli spazi. Poi, in quell’edificio, allestirei il primo museo al mondo di arte basata sulla percezione e sulla vibrazione della luce, con Balla alla Gam e Olafur Eliasson a Rivoli. Tornando alla realtà, non penso ad ampliare la superficie, perché Rivoli ha molto spazio e prima o poi il restauro delle Ogr (le Officine Grandi Riparazioni delle ferrovie) sarà terminato. Poi ci sono tutte le regge sabaude... Non mi sembra che a Torino e in Piemonte manchino gli spazi espositivi, manca casomai un’infrastruttura per rendere quegli spazi adeguati.

Franco Fanelli, 18 febbraio 2016 | © Riproduzione riservata

Articoli precedenti

Doppietta della Fondation Louis Vuitton: Monet-Mitchell (675mila visitatori) e Warhol-Basquiat (662mila); Vermeer terzo per un soffio. Van Gogh primo in Italia. La moda sempre più di moda: Schiaparelli decimo posto, McQueen sedicesimo, Cartier diciottesimo

Il progetto «polifonico» del curatore Luca Cerizza e dell’artista Massimo Bartolini è uno spazio abitato dalla musica  e da poche opere di meditazione e di introspezione, i cui poli sono la natura e la spiritualità 

Da oltre cinquant’anni l’artista torinese dialoga severamente con la storia della pittura per rivelarne l’alfabeto nascosto. Scrive il «New York Times»: «Merita un posto nella storia mondiale dell’Astrattismo»

A Bassano del Grappa, il rapporto tra pittura e stampa nella Venezia cinquecentesca

Due musei, una direttrice. Polifonica, biocentrica e sinergica | Franco Fanelli

Due musei, una direttrice. Polifonica, biocentrica e sinergica | Franco Fanelli