Image

Diana Bracco di fronte alla «Madonna Litta» di Giovanni Antonio Boltraffio

Image

Diana Bracco di fronte alla «Madonna Litta» di Giovanni Antonio Boltraffio

Cultura nelle industrie: una questione di fidelizzazione e orgoglio

Diana Bracco guida il Gruppo di famiglia, leader mondiale nella diagnostica per immagini. L’azienda che compie 95 anni ha creato una Fondazione sempre più attiva anche nell’arte

Image

Ada Masoero

Giornalista e critico d’arte Leggi i suoi articoli

Dalla sua scrivania in Palazzo Visconti, nel cuore di Milano, Diana Bracco pilota (egregiamente, a giudicare dall’impulso che gli ha impresso) il gruppo multinazionale che porta il nome di famiglia e che, fondato nel 1927 dal nonno Elio Bracco e potenziato dal padre Fulvio, festeggia quest’anno i 95 anni. Sotto la sua guida di presidente e amministratore delegato, infatti, il Gruppo Bracco (quasi duemila brevetti, sette centri di ricerca, nove stabilimenti nel mondo) che fattura 1,4 miliardi di euro (l’89 per cento dal mercato internazionale) e conta circa 3.600 dipendenti, non solo è ancora cresciuto di molto ma ha raggiunto la leadership mondiale nella diagnostica per immagini.

Accanto agli impegni da capitana d’industria, che le hanno guadagnato il titolo di Cavaliere del Lavoro (ma preferisce essere chiamata «dottoressa»), lei che è stata la prima presidente donna di Federchimica e Assolombarda, poi la presidente di Expo 2015 e molto altro ancora, e che tuttora siede nel Consiglio direttivo di Confindustria e nei Cda di Università Bocconi e Fiera Milano, coltiva molte passioni nell’ambito della cultura, dell’arte e del sociale, attiva com’è in quella che un tempo si definiva filantropia, mentre oggi si preferisce parlare di responsabilità sociale e di «buona cittadinanza» dell’impresa.

Frutto, anche questa, di una tradizione familiare inaugurata dal fondatore, il nonno Elio (nato nell’isola di Lussinpiccolo, in Croazia, irredentista, incarcerato per le sue idee e presto rifugiato in Italia) che in piena guerra, nel 1942, volle salvare l’intera opera del pittore friulano Angiolo D’Andrea (1880-1942), autore, tra l’altro, dell’incantevole decorazione a mosaico del bar «Camparino», in Galleria a Milano. «D’Andrea collaborava con Giulio Ulisse Arata, l’architetto prediletto di mio nonno: ne nacque un rapporto di grande amicizia», ricorda Diana Bracco, che nel 2012 ha realizzato in Palazzo Morando Costume Moda Immagine, a Milano, l’omaggio a D’Andrea che già il nonno avrebbe voluto promuovere.

Quella era la terza mostra, dopo «Canaletto e i suoi rivali» (National Gallery of Art di Washington, 2011) e «Costantino 313 d.C. L’Editto di Milano e il tempo della tolleranza» (Palazzo Reale di Milano, 2012-13, poi a Roma al Colosseo), promossa dalla Fondazione Bracco, istituita da Diana Bracco nel 2010 e attiva sul fronte delle arti, della scienza e del sociale. Oltre a importanti restauri (tra l’altro, al Quirinale), molte mostre sono seguite a quelle: indimenticabili «Le dame dei Pollaiolo. Una bottega fiorentina del Rinascimento» (2014-15, al Museo Poldi Pezzoli di Milano) e «Dentro Caravaggio» (2017-18), in cui la tecnologia di imaging clinica era messa al servizio della pittura. In questo 95mo anniversario, in Palazzo Reale a Milano, è stata la volta di «Tiziano e l’immagine della donna» e della mostra fotografica «Ritratte. Direttrici di musei italiani». Due progetti che introducono all’ambito dell’empowerment femminile, sempre più al centro degli interessi della Fondazione.

Dottoressa Bracco, della questione dell’accesso delle giovani donne allo studio, e poi ai «piani alti» delle professioni, la sua Fondazione si occupa da tempo, ben prima che il tema diventasse centrale com’è oggi. Questa sensibilità ha a che vedere con la sua storia personale?
Io ho fatto Chimica a Pavia: eravamo, allora, cinque ragazze fra un numero sterminato di uomini (nel biennio eravamo insieme ai futuri ingegneri). Ricordo che agli esami alcune piangevano, si mostravano a disagio, e la cosa m’innervosiva moltissimo. Certo, non era facile, ma io non ho mai pianto. Fortunatamente negli ultimi 50 anni molto è cambiato nel costume e nella società, tuttavia l’accesso alle professioni Stem (cioè che fanno parte degli ambiti scientifico, tecnologico, ingegneristico e matematico, Ndr), e comunque alle posizioni apicali nelle professioni, è ancora difficile per le ragazze e per le donne. Noi, con la Fondazione, vogliamo insegnare alle giovani donne che oggi, se lo vuoi, puoi fare tutto ciò che desideri, non devi autolimitarti. La mostra sulle direttrici di museo e, prima ancora, quella sulle scienziate portano proprio questo messaggio, ma intanto abbiamo realizzato anche il database 100esperte.it (che sono ormai molte di più) in cui figurano filosofe, storiche, diplomatiche, economiste. È uno strumento che abbiamo voluto mettere a disposizione dei giornalisti in modo che, quando devono intervistare un «esperto», non si rivolgano, come sempre, a un uomo. Lo stesso dovrebbe accadere (e sta in parte accadendo, ma solo ora) nelle tavole rotonde, dove per molti anni non si è vista una donna. Qui dovrebbe valere il motto «no women, no panel». Io stessa mi sono ritirata in un paio di occasioni, rifiutandomi di partecipare a un tavolo di soli uomini. Vero è che noi donne siamo poche in queste posizioni ed è questa la ragione per cui la formazione e la crescita della professionalità delle donne sono diventate il tema identificativo della Fondazione Bracco.

Tuttavia nella sua famiglia, composta di tre sorelle tutte con identica educazione e stesse opportunità, lei sola ha raccolto il testimone dell’impresa di famiglia.
Forse perché ero la più disciplinata: mi dissero «T’iscrivi a Chimica» e io lo feci. Ma mentirei se dicessi di aver avuto quella vocazione sin da bambina. Io volevo fare il medico. Rinunciai. Comunque non è andata male...

Presumo che nel Gruppo Bracco la presenza femminile sia numerosa, anche in ruoli apicali.
Sì certo, sono circa la metà a livello totale, ed entro il 2025 vogliamo raggiungere l’obiettivo di avere il 35 per cento di donne in posizioni dirigenziali ed executive. Attualmente il centro di ricerca Bracco di Colleretto Giacosa, vicino a Ivrea, è guidato dalla chimica Roberta Fretta; la fabbrica di Torviscosa, in Friuli, è diretta dall’ingegnera Laetitia Laurent, e Fulvia Vella, insignita di recente del titolo di Maestro del Lavoro, è a capo del Controllo qualità. Del resto, già mio padre, come tutti gli istriani, sentiva fortemente la parità di genere, e già negli anni ’50 c’erano in azienda delle dirigenti donne.

Per tornare alla promozione della cultura, oltre che nelle arti visive lei è molto presente anche nel mondo della musica, anche come vicepresidente della Fondazione Accademia Teatro alla Scala.
La musica è una mia passione sin da bambina. Ho avuto la grande fortuna di poter seguire tutte le stagioni della Scala sin dai miei dieci anni e anche l’amore per la musica è qualcosa che va insegnato alle ragazze e ai ragazzi. Essendo noi milanesi, ho sempre supportato la Scala e il nostro Conservatorio, ma ho sostenuto anche l’Accademia di Santa Cecilia di Roma. Quanto all’Accademia Teatro alla Scala, promuoviamo la realizzazione di un’opera all’anno per il cartellone della Scala (quest’anno sarà «Il matrimonio segreto» di Domenico Cimarosa) e presentiamo gli allievi in concerti e balletti, nei teatri del mondo o in eventi internazionali (per Expo 2015 commissionammo loro il balletto «Cenerentola»). Ci hanno sempre fatto figurare ottimamente.

Perché il vostro impegno è diffuso su fronti diversi ?
Consideriamo la cultura, la formazione e, in generale, il supporto alla persona come parte fondante del nostro concetto di sostenibilità. Si tratta d’interventi ad ampio raggio per supportare la persona in ogni suo aspetto: abbiamo per esempio istituito tre Centri psicopedagogici, a Cesano Maderno, a Ceriano Laghetto e a Lambrate (dove abbiamo uffici e stabilimenti) per il supporto nelle scuole di bambini fragili e delle loro famiglie, e di recente abbiamo sostenuto il festival di tre giorni IN&AUT (Milano, Fabbrica del Vapore, 13-15 maggio, Ndr) per sensibilizzare l’opinione pubblica sul tema dell’autismo. Quanto alla storia e alla cultura, fanno parte di questa costellazione perché sono il cemento della comunità. È compito delle aziende sostenere la cultura proprio per il suo valore etico-sociale, senza contare che è necessario restituire ai territori in cui si opera ciò che, come impresa, si è ricevuto.

Oltre che per questi valori indiscutibili, si può dire anche che alle imprese «convenga» fare cultura?
L’investimento in cultura è un investimento valoriale, che arricchisce sul piano personale e che ha un impatto positivo all’interno dell’azienda, perché crea fidelizzazione fra i collaboratori e orgoglio per il ruolo svolto, ma per le imprese c’è anche un importante ritorno reputazionale, trattandosi di un aspetto cui cittadini e consumatori sono sempre più attenti. Ovvio che è indispensabile saper «fare rete» con le istituzioni: il segreto della partnership pubblico-privato è la progettualità condivisa, realizzata a quattro mani. Questa è la ricetta che a noi di Bracco ha permesso di dare solidità, e continuità nel tempo, alle partnership con le grandi istituzioni culturali con cui operiamo.

Diana Bracco di fronte alla «Madonna Litta» di Giovanni Antonio Boltraffio

Ada Masoero, 15 giugno 2022 | © Riproduzione riservata

Articoli precedenti

Il nuovo progetto culturale di Platea, associazione culturale nata nel 2020 dalla volontà di un gruppo lodigiano di appassionati di arte e architettura

Nacquero da Luca Giordano (con la mediazione dei veneziani) i singolari rapporti, poco noti ma fondamentali, tra la città orobica e il Viceregno di Napoli testimoniati dai capolavori del ’600 napoletano ora esposti

In Triennale Milano una grande mostra con oltre 400 lavori dell’architetto, designer, artista, critico e direttore di riviste, curata da Fulvio Irace

Presentata a Milano la nuova grande installazione site specific di Michelangelo Pistoletto che inaugurerà il 18 aprile a Venezia il nuovo spazio Sanlorenzo Arts

Cultura nelle industrie: una questione di fidelizzazione e orgoglio | Ada Masoero

Cultura nelle industrie: una questione di fidelizzazione e orgoglio | Ada Masoero