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Come e dove compreranno i collezionisti del futuro

Il mercato online è ormai maturo, il target delle vendite è over 45

Riccardo Deni

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Era il 1964 e un collezionista scrisse a Lucio Fontana che oltre all’assoluto rispetto delle misure finali dell’opera, che avrebbe dovuto entrare in una nicchia del muro della propria sala da pranzo (cosa di cui non avrebbe mai dubitato), avrebbe anche voluto passare dal suo studio di corso Monforte 23 per vedere l’opera. Per uno degli artisti più concettuali del Novecento poteva anche essere sufficiente la misura della tela. Eppure no: oltre all’amore per quel momento del tutto unico, un’epifania, che deve provare il collezionista nell’entrare in unione con l’atto creativo, c’era anche quel desiderio tattile, visivo, persino olfattivo, che si genera nello stare davanti a un lavoro che è in procinto di entrare nella tua vita, sconvolgendo, almeno un poco, la tua percezione dell’universo.

Se tutto questo era vero negli anni Sessanta, oggi lo sembra un po’ meno. Oggi c’è Instagram. Questa constatazione non è un revanscismo passatista o un riscontro melanconico, ma quello che emerge con chiarezza dai molti report sull’andamento del mercato dell’arte cosiddetto online. C’è da chiarirsi subito: con online viene identificata qualsiasi attività di ricerca, consultazione, fruizione mediante canali digitali. Ma non è questo enorme insieme di comportamenti e impronte digitali (letteralmente fingerprinting) cui guarda un analista oggi. Piuttosto, quello che ha un valore per le tattiche a breve termine dei molti operatori del settore è il sottoinsieme degli utenti, spesso registrati con tanto di nome, cognome, carta di credito, indirizzo di fatturazione e spedizione, che risulta essere attivo nell’acquisto di opere e servizi tout-court mediante canali digitali.

È in questa fascia di esseri umani dotati di potere di acquisto che le case d’asta e le molte piattaforme digitali di servizi concentrano i loro sforzi. È quindi apparso perlomeno stravagante lo stupore di molti analisti nel metabolizzare i trend identificati sia dallo studio di Barneby’s sia dall’Hiscox online art trade report 2018, i quali parlano chiaro: il target di questo eldorado è over quarantacinque. Questo lo si può dedurre da indicatori come la predominanza della fruizione da desktop computer rispetto che da mobile (fenomeno in controtendenza rispetto a qualsiasi fruizione di contenuto nel mondo moderno in cui tutti i millennial sanno poco di cosa sia un desktop e difficilmente distinguono un tablet da un tagliere, ma d’altronde comprereste mai una fotografia di Elger Esser di quattro metri quadrati da uno schermo di nove pollici?), la maggiore quantità di acquisto di beni e servizi da parte di utenti profilati sopra i quarantacinque anni così come un superiore valore medio di acquisto per singola transazione (ma chi si potrebbe stupire circa il potere di spesa di un quarantenne rispetto a un ventenne?).

Ma l’Hiscox online art trade report 2018 si spinge oltre nell’analisi, ben identificando come il livello di maturità del mercato dell’arte online sia ormai completo, lontano dalle vertiginose crescite da montagne russe dell’inizio degli anni Dieci del Duemila, ma decisamente prossimo a un consolidamento dei propri numeri, con utenti che dichiarano la loro intenzione nei prossimi dodici mesi nel proseguire e anzi intensificare gli acquisti via web di beni e servizi (il 52% delle persone intervistate lo ha confermato), e piattaforme che si stanno predisponendo per gestire una mole di dati e utenti sempre maggiore (l’81% delle piattaforme si aspetta una crescita considerevole dei volumi di traffico). Tutto questo era prevedibile: il digital ha invaso la vita di tutti, ha spesso stravolto i mercati, da quello delle informazioni a quello dell’intrattenimento, ed è per questo che è interessante non tanto perdersi nelle statistiche, che comunque sottolineano il progressivo assestamento della domanda e dell’offerta digitali, quanto provare a speculare sul futuro.

Se è vero che l’uomo è un animale che vive della coazione a ripetere, sia nelle forme patologiche identificate da Sigmund Freud in Al di là del principio di piacere (1920), che in quelle ambientali rintracciabili in molti fenomeni tendenziali di massa, possiamo immaginare che l’arte non differirà dal mondo dell’editoria, da quello della musica e del cinema. In questo senso chi opera in questo mercato dovrebbe chiedere (se è in grado di rintracciarne ancora qualche sopravvissuto) alla Sony, alla Emi, al «Boston Globe» o al «Washington Post» a.B. (ante Bezos), a Blockbuster. Le regole oggi sono chiare: newstainment e aggregazione.

Informare per intrattenere, o intrattenere informando se siete meno prosaici, e aggregare semanticamente i contenuti con potenziale di vendita. È quello che il digital offre oggi a quelli che davvero il mercato dell’arte online non solo lo vivranno, ma lo influenzeranno, lo domineranno, lo sezioneranno in capitoli. Persone che mentre scrivo si trovano a non avere un’American Express platinum nel portafoglio, abbinata magari a un conto PayPal, e che mai ne avranno bisogno, perché pagheranno mediante modalità molto più rapide e meno arcaiche, completamente slegate dal supporto fisico di una carta, men che meno affastellata in un borsellino di lisa pelle.

Esseri umani come noi, che vivono però in una dimensione anche solo leggermente separata, uno strato sociale vagamente anteriore; il frutto di una generazione che ha strumenti che vanno di chilometri orari più veloci rispetto a quelli che le generazioni addietro avevano di differenza rispetto a quella che le precedeva. Ragazzi che già oggi «scrollano» migliaia di immagini su Instagram ogni giorno, le guardano come un’aquila osserva la sua prossima preda, si scambiano messaggi vocali su Snapchat, snobbano Facebook e ignorano Twitter, stanno per scoprire le meraviglie di chat avanzate come WeChat, dove il modello di business è basato sull’idea di istant e-commerce.

Persone che, in definitiva, non scriveranno a Lucio Fontana per annusare l’opera, o lo faranno sempre meno, con buona pace degli artisti, e che, con buona pace di molti, vivranno sempre meno nelle gallerie e nelle fiere. Perché se oggi questo mondo ultrapatinato resiste, come per esempio quello degli orologi di lusso o semplicemente di moda, contro i cosiddetti wearable (gli orologi tecnologici alla Apple Watch), lo fa collocandosi in una nicchia sempre più ristretta di eletti e vip che, come è stato per qualsiasi mercato, si assottiglierà come un’ostia al punto da scomparire o da divenire quella che Jeff Bezos, proprio a Torino quest’anno, ha definito un oggetto esotico, come fosse un cavallo («I giornali di carta avranno lo stesso destino dei cavalli; oggi quasi nessuno si sogna di usare un cavallo come mezzo di trasporto; un giorno le persone vedendo un giornale di carta saranno stupite, ma quel giorno non è vicino»). Quel giorno è ogni giorno un po’ più vicino, ed ecco perché, non potendo insegnare a chi verrà come vivere l’arte, come e dove comprarla, l’unica via è trovare il modo di integrare quella visione, che non farà eccezioni né sconti.

Investire nel digital in arte, oggi, non significa solo investire in chi compra, oggi. Ossia in persone che hanno caratteristiche ed esigenze del tutto analogiche; ma pensare a chi lo farà domani, e che ora, per esigenze di reddito e scala dei bisogni, ha già un abbonamento a Netflix o a Spotify, ma non ha ancora comprato un Malick Sidibé su christies.com. Prima o poi il potere di acquisto verrà generato, la ruota girerà e vedremo quale, in quel dato momento, potrà essere la piattaforma più vicina a questo fluire di immagini e contenuti a getto continuo che il compratore di domani è abituato a vivere oggi.

Se esisterà ancora il collezionismo, il possesso e la proprietà saranno ancora di moda, potrà forse mutare, in questa realtà in cui le immagini cambiano pelle, si fondono e si stratificano nella velocità del loro accadere, il modo in cui decideremo di appropriarcene.

Riccardo Deni, 19 ottobre 2018 | © Riproduzione riservata

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