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Laura Lombardi
Leggi i suoi articoliUn progetto curato da Pietro Gaglianò e intitolato «La torre di Babele» si inserisce nell’ambito degli eventi organizzati da Fabio Cavallucci, direttore del Centro «Luigi Pecci» per l’arte contemporanea, per la riapertura del museo.
La mostra si svolge dal 12 ottobre al 6 novembre nelle exofficine Lucchesi, edificio di archeologia industriale che caratterizza il panorama urbano di Prato. Vi si riuniscono 23 gallerie private toscane, legate dall’appartenenza all’Associazione Nazionale delle Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea (Angamc), presenti ciascuna con l’opera di un unico artista, scelto come testimone della loro attività, con una selezione che privilegia artisti italiani e viventi, con possibili eccezioni.
Ne risulta una molteplicità, talvolta contraddittoria, tra artisti ormai storicizzati e altri più giovani. Matteo Basilè è la proposta di ZetaEffe, Manfredi Beninati di Poggiali e Forconi, Renata Boero di Open Art, Luigi Carboni di Tornabuoni Arte, Francesco Carone di Spazio A, Matteo Ciardini di Paola Raffo, Carlo Colli di Die Mauer, Fabrizio Corneli di Susanna Orlando, Vittorio Corsini di Claudio Poleschi, Marta Dell’Angelo di Passaggi Arte Contemporanea, Aron Demetz di Barbara Paci, Piero Gilardi della Galleria Giraldi, Zoè Gruni della Galleria Il Ponte, Michele Guido di Eduardo Secci, Paolo Leonardo di Alessandro Bagnai, Paolo Masi di Frittelli.
La polifonia include un protagonista del movimento Fluxus come Giuseppe Chiari (proposto da Armanda Gori), scultori di diversa ispirazione come Paolo Icaro (Marcorossi), Giuseppe Maraniello (Flora Bigai) e Arcangelo Sassolino (Galleria Continua), esponenti del ritorno alla pittura degli anni Ottanta come Bruno Ceccobelli (Guastalla), l’azionista austriaco Hermann Nitsch (Frediano Farsetti) e un artista come Luigi Ontani che ha declinato l’autoritratto in tutti i linguaggi, dalla fotografia alla ceramica (Santo Ficara). Il titolo si riferisce alla torre biblica, emblema del superamento del limite, sfida dell’ingegno ai confini imposti, volontà visionaria, «che colloca nel mondo, spiega Gaglianò, un aspetto del possibile che prima non vi era contemplato, proprio come fa l’arte». Ma l’«invidia» del dio biblico porta come punizione l’incomprensibilità degli uomini tra loro: eppure è proprio quel balbettio poliglotta a moltiplicare le possibilità interpretative, una virtù resistente, metafora, anche in questo caso, del lavoro compiuto dall’arte.
La scelta delle opere, seguendo questi due temi, porta a definire un atlante contemporaneo che coinvolge lo spettatore in quanto interlocutore capace di riformulare il senso dell’opera. È, nell’insieme, una messa in scena di un’«utopia del disincanto», dove, prosegue il curatore, gli artisti sono come «architetti babilonesi, incauti e tenaci, costruttori dell’invisibile attraverso il visibile. In diversi modi e con diversi linguaggi, precisa Gaglianò, tutti gli artisti ci ricordano che esiste una Toscana del contemporaneo, una realtà diffusa e puntuale fatta di consapevolezza culturale, coltivata con passione dal lavoro dei galleristi, dal pubblico, ma soprattutto dal coraggio dell’arte. Una Toscana, insomma, che riesce a esprimersi anche fuori dal decorativismo che caratterizza alcuni eventi e che si appassiona alla ricerca, alla singolarità, all’anomalia del non noto».
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