Una delle tavole di Francesco Scaramuzza per l’«Inferno» di Dante

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Una delle tavole di Francesco Scaramuzza per l’«Inferno» di Dante

Alla Pilotta Scaramuzza e il primo ciclo sulla Commedia

Il direttore Simone Verde rintraccia le origini dell’attrazione del Romanticismo europeo per l’Alighieri e ricorda che il culto del Sommo Poeta nell’800 si affermò all’estero anziché in patria

È Dante, nell’anno in cui si commemora il settimo centenario della morte, a inaugurare le restaurate Scuderie ducali di Palazzo della Pilotta, all’interno del Complesso monumentale diretto da Simone Verde. Convertite in sede espositiva, le cinquecentesche Scuderie si estendono per circa 1.500 mq; dal 2020, grazie a un accordo tra Mic e Università di Parma, rientrano nel percorso della «Grande Pilotta».

Qui, fino al 13 febbraio, è allestita la mostra «Un splendor mi squarciò ‘l velo. Dante illustrato dal Codice 3285 a Scaramuzza», dedicata alle illustrazioni della Commedia. Al centro della scena espositiva c’è il codice «Ms. Parm. 3285», uno dei maggiori tesori della Biblioteca Palatina, anch’essa parte della Pilotta: già appartenente alla famiglia Danti del Cento è un esemplare, appena restaurato e digitalizzato, risalente ai primissimi decenni del Trecento, arricchito da uno straordinario apparato decorativo attribuito alla bottega fiorentina del cosiddetto Maestro delle Effigi Domenicane.

Fanno da corollario a questo capolavoro numerosi esemplari manoscritti e a stampa riferiti alla Divina Commedia e in passato appartenuti ai Farnese, ai Borbone a Maria Luigia d’Austria. Spiccano i quattrocenteschi lavori dell’olivetano Matteo Ronto e della Scuola degli Angeli di Firenze, ma soprattutto l’edizione 1876 del parmense Francesco Scaramuzza (1803-86), che nell’arco di una quarantina d’anni realizzò 240 fogli, con 243 episodi danteschi, tutti conservati dai discendenti dell’artista e ora esposti alla Pilotta.

La mostra discende dalla pubblicazione integrale di Scaramuzza. Le tavole per la Divina Commedia, presso Allemandi, patrocinata dal Comitato Nazionale delle Celebrazioni Dantesche (testi di Carlo Ossola, Vittorio Sgarbi, Lina Bolzoni e Simone Verde, 316 pp., 283 ill., Torino 2021, € 50), da cui è tratto il brano proposto in questa pagina. [Stefano Luppi]


Gli inglesi più Dantofili degli italiani
«Non so perché, ma non mi sono imbattuto in Dante se non tardi [...] Se ne ho avuta una copia, non credo di averlo letto. Ma siccome è sempre più di moda, temo che una di queste umide mattine mi toccherà leggerlo».

A parlare è uno dei personaggi di Nightmare Abbey, novella a chiave scritta nel 1818 da Thomas Love Peacock, funzionario della Compagnia delle Indie Orientali dalle grandi pretese letterarie: l’Honourable Mr. Listless, ozioso dandy e quintessenza del lettore borghese, allude qui a una vera e propria moda dantesca scoppiata dopo la traduzione in versi liberi della Divina Commedia nel 1814, a opera di Henry Cary e recensita favorevolmente, tra gli altri, da Coleridge e persino da Ugo Foscolo.
Apparsa in piena epoca georgiana, questa versione generò una vera e propria «dantemania» che dalla letteratura passò presto alle arti, finendo per identificarsi con la stagione romantica e con alcuni dei suoi più significativi orientamenti politico-estetici [...]. Va considerato che, prima di determinarsi in Dante, la storia rinascimentale di Firenze era di moda già da un pezzo nel dibattito pubblico inglese, dacché la città era parsa da sempre esemplare nel confronto tra i vizi e le civiche virtù, individualismo e collettività.

Lo dimostrano i numerosi riferimenti contenuti nell’opera dello storico britannico per eccellenza della seconda metà del Settecento, Sir Edward Gibbon. Il mito si era andato rafforzando nel momento in cui il fiorire artistico, manifatturiero e finanziario della Firenze del XV secolo era stato scelto come origine leggendaria dello sviluppo economico e industriale dell’Europa dei Lumi. Quando, però, nell’ultimo scorcio di secolo l’apparizione tumultuosa di una borghesia eversiva [...] incrinò ormai irreversibilmente le illusioni della ragione e produsse una delle crisi sociali più acute e incontrollabili di tutti i tempi, si dovette cercare in altre inedite pieghe della storia fiorentina.

Di fronte agli stravolgimenti della prima industrializzazione, alla privatizzazione delle terre e all’inurbamento di una massa inimmaginabile di disperati, dalla Firenze del Rinascimento si cominciò a guardare, quale paradigma, a quella del secolo di Dante. Più che la Divina Commedia, al massimo vista come un prototipo ancestrale del Paradiso perduto di Milton, fino a quel momento i britannici eruditi avevano letto, apprezzato o al massimo saputo dell’esistenza del De Monarchia.

Per ragioni ideologiche, ovvero l’attacco frontale alla pretesa legittimità teocratica del papato contenuta in quello scritto. Si dovette aspettare il 1719 e un uomo come Jonathan Richardson per assistere a un cambiamento di prospettiva. Fu allora che questo artista, collezionista ed erudito, autore del Discours on the Science of a Connaisseur, testo cruciale nella storia del gusto in cui veniva definita per la prima volta la figura del «conoscitore d’arte», si riferì a Dante come a un grande poeta, utilizzandone la statura letteraria per un paragone tra le arti.

Riguardo la tragica storia del Conte Ugolino così come raccontata da Giovanni Villani nelle Cronache Fiorentine e nella Commedia di Dante, Richardson concluse che se la poesia del secondo aveva potuto molto di più che la storiografia del primo, «la stessa vicenda, dipinta con tutti i vantaggi [...] del colore da un genio equivalente e superiore a quello di Michelangelo, sarebbe stata ancora più efficace».

Cinquant’anni dopo, con la crescente diffusione della Commedia in lingua inglese, il paragone tornò d’attualità e nel 1773 Joshua Reynolds, che nelle sue collezioni possedeva un disegno di Virgilio, Dante e Ugolino attribuito a Luca Signorelli, si cimentò in una tela dallo stesso soggetto («Il Conte Ugolino e i suoi figli incarcerati») oggi custodita al British Museum, il cui colorismo sembra rispondere alla sfida lanciata da Richardson, ovvero dimostrarsi artista pari o superiore a Michelangelo, magnificando il potere narrativo della pittura sulle altre arti.

Nel 1769 e sulla stessa scia, lo scrittore svizzero Jakob Bodmer, questa volta per dimostrare la superiorità della parola sulle immagini, aveva dato alle stampe un dramma storico, Der Hungerthurm in Pisa, tutto incentrato sulla figura di Ugolino. Tra i suoi allievi, Bodmer annoverava un talentuoso Henry Fuseli (Johann Heinrich Füssli) che, una volta trasferitosi a Londra ed entrato in contatto con Reynolds, proprio lui, imboccò sotto la sua influenza la strada della pittura.

Durante un lungo soggiorno a Roma, che si protrasse dal 1770 al 1778, studiò quindi Michelangelo ed eseguì illustrazioni della Divina Commedia, tutte ispirate a quelle miniate da Sandro Botticelli tra il 1480 e il 1495 su commissione di Pierfrancesco de’ Medici, che aveva potuto ammirare in città. A questo punto i temi fondamentali dell’iconografia dantesca erano ormai noti al mondo britannico e a quello germanico, tanto più quando, nel 1791, apparve il saggio Über des Dante Alighieri Göttliche Komödie a opera di August Wilhelm von Schlegel, il quale tradusse e commentò ampie parti della Commedia, dando il via agli studi danteschi anche nel cuore continentale dell’Europa tedesca.

Fu nella Gran Bretagna degli anni Settanta che si verificò tuttavia la serie rapidissima di passaggi con cui la riscoperta divenne una vera e propria «dantemania». Il primo avvenne nel 1773 quando il bibliofilo Roger Wibraham acquistò copia della celebre edizione della Divina Commedia di Cristoforo Landino contenente riproduzioni a incisione dell’opera di Botticelli che fece circolare negli ambienti eruditi. Alcuni anni dopo, tra 1785 e 1786, ecco che due tavole vennero riprodotte nel Bibliographical Dictionary of Engravers di Joseph Strutt, entrando così ufficialmente nell’immaginario degli artisti e degli amatori.

Un secondo passaggio venne sancito qualche anno più tardi quando John Flaxman realizzò la sua impegnativa serie di illustrazioni della Divina Commedia commissionatagli da un aristocratico del solito giro di patiti del Grand Tour, Thomas Hope. A quel punto, in una delle accelerazioni tipiche dei fenomeni di moda, nel 1803 ben 88 pagine disegnate «dalla mano di Botticelli o di un altro disegnatore eccellente dello stesso periodo», le stesse studiate da Fuseli a Roma, finirono nelle mani di un celebre libraio-antiquario italo-parigino, Giuseppe Molini, e vennero acquistate da un nobile collezionista scozzese, Alexander Hamilton, per arricchire le raccolte di famiglia dove rimasero fino al 1882.

Giocoforza, nel 1807 Hope sentì tutto l’interesse di pubblicare l’album commissionato a Flaxman, che diede alle stampe con il titolo Compositions from the Divine Poem of Dante: la dantemania era oramai un fenomeno di mercato, al punto che il Lucifero della Commedia illustrata da William Blake nel 1824 prese le fattezze di una deità indù (Durga, consorte di Shiva) in un sincretismo in voga sotto gli auspici della Compagnia delle Indie. Potrebbe sembrare strano che il movimento sia partito dal mondo anglosassone e non da quello latino, magari dall’Italia, ad esempio da un artista come Francesco Scaramuzza.

A ben pensarci, però, non lo è. Il Romanticismo ha infatti radici innanzitutto tedesche, tant’è che l’atto di nascita di questa corrente speculativa viene considerato un piccolo pamphlet tanto polemico quanto folgorante, ovvero la Metacritica alla Critica della ragione pura (1798) di Johann Gottfried Herder in cui viene smascherata la pretesa universalità della ragione illuminista, in particolare nella versione assunta da Immanuel Kant. Herder fa notare come la conoscenza, incardinandosi nel linguaggio più che in un assoluto, può aspirare semmai a una rivelazione culturale, un po’ come il percorso catartico dantesco non può fare a meno della carnalità e della mortalità, né delle radici spaziali, storiche, in cui si snoda ogni percorso di rivelazione.

Nell’impossibilità di accedere direttamente alla verità, la ragione è dunque costretta a compiacersi delle sue determinate apparizioni nel vissuto di ciascuno, a farsi bastare i suoi rispecchiamenti, le sue immagini proprio come quelle che nel viaggio spirituale il poeta riporta quale unica espressione comunicabile del suo avvicinamento a Dio. Tutte esperienze individuali, dunque, la cui sommatoria nelle singole comunità altro non è se non storia, sedimentata in diverse lingue, ovvero in diverse culture nazionali.

Questo intreccio teorico dimostra come non fu soltanto il Dante dell’Inferno e delle sue immagini truculente ad attrarre l’Europa romantica ma anche la sostanza teologica delle altre cantiche, tanto più se si considera l’origine spirituale e religiosa del movimento. [...] Attraverso la riscoperta di Dante, e per forza di cose a partire dal mondo anglosassone, si compiva una riscoperta dell’assoluto dello spirito, più che un allargamento dell’universale della ragione, che da una comunità specifica e da una precisa stagione della storia avrebbe potuto essere di insegnamento se inteso e compreso a vantaggio di un’altra, ma per analogia, nel rispetto delle dovute differenze, cioè, e non per emulazione.

Il primo documento della Dantemania italiana
È una vera fortuna se il Complesso Monumentale, che già nell’area detta della Rocchetta conserva uno dei primi allestimenti del Romanticismo italiano, racchiude dentro di sé un documento così significativo, ovvero il primo ciclo consacrato alla dantemania di un artista italiano e che in occasione dell’importante centenario dantesco che ricorre nel 2021 possa esporre all’interno dei suoi spazi, in un dialogo ideale con gli affreschi, l’intero nucleo dei disegni per la Commedia realizzati da Scaramuzza.

In grandissimo ritardo rispetto all’Europa, certo, ma quasi un’avanguardia in riferimento a una riscoperta italiana che sarebbe esplosa solo venti anni più tardi, ovvero nel 1865, in occasione dei 600 anni dalla nascita del poeta, quale mezzo di sottolineare, attraverso la sua figura, l’elezione di Firenze a capitale. In quella circostanza la penisola andò cercando un suo Goethe, eroe della lingua quale elemento identificativo del suo popolo, e pensò di averlo trovato.

Una ricerca velleitaria che si tradusse nella fondazione di innumerevoli comitati danteschi, più tardi ancora nella nascita degli istituti culturali in giro per il mondo, ma che non riuscì mai a trovare il suo simbolo, come testimonia la storia paradigmatica di una statua che avrebbe dovuto, su progetto di Cesare Laurenti, essere collocata su Monte Mario (proprio come quella di Goethe nel 1844 a Francoforte), e che non vide mai la luce. Nel frattempo, una nazione tentennante e ingenerosa destinava, ma davvero a lungo, ovvero fino alla rivalutazione dei tempi recenti, uno dei suoi pittori e il suo meraviglioso ciclo dantesco a un immeritatissimo flop.

Il testo è uno dei saggi inclusi nel volume
«SCARAMUZZA. Le tavole per la Divina Commedia»
edito dalla Società editrice Allemandi

Leggi anche, dal volume
SCARAMUZZA TRA REALTA' E VISIONI di Vittorio Sgarbi
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LA COMMEDIA DI DANTE TRADOTTA IN IMMAGINI di Lina Bolzoni
 

Una delle tavole di Francesco Scaramuzza per l’«Inferno» di Dante

Simone Verde, 03 gennaio 2022 | © Riproduzione riservata

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