Addio al gallerista Franz Paludetto
Il suo Castello di Rivara, nel Canavese, è stato un ritrovo leggendario di artisti e critici. Ma lui si definiva «uno strano personaggio ai margini dell’arte»

È scomparso questa mattina a Rivara, nel torinese, Franz Paludetto, gallerista e curatore. Il 30 giugno avrebbe compiuto 85 anni. Lo ricordiamo con l’intervista che Franco Fanelli gli fece nel 2015, in occasione del trentennale del Castello di Rivara-Museo d’arte contemporanea, crocevia dell'avanguardia mondiale.
Il decano è un castellano
«Ho avuto la fortuna di possedere opere straordinarie e di riuscire a venderle. Ma i musei della mia città hanno perso occasioni irripetibili»
A Torino e dintorni l’arte contemporanea ha sede in due castelli: uno è quello di Rivoli, che dal 1984 ospita il primo museo d’arte contemporanea nato in Italia; l’altro è quello di Rivara, un paese del Canavese dove a metà dell’Ottocento si davano convegno alcuni pittori desiderosi di esprimersi en plein air. Qui, da trent’anni, il gallerista Franz Paludetto (Oderzo, 1938) ha stabilito la sua piazzaforte dopo aver cambiato diverse sedi a Torino e aver aperto negli anni Novanta uno spazio a Norimberga con sua moglie Caroline Lindig, poi scomparsa: «Mi trasferivo continuamente non perché non pagassi l’affitto, spiega. Era una mia esigenza personale perché “consumavo lo spazio” e consumandolo non avevo più il senso creativo nella collocazione delle opere».
Negli ambienti del Castello si sono avvicendati artisti e critici di prima grandezza, spesso in anticipo sulla loro definitiva affermazione, perché a Paludetto il fiuto non ha mai fatto difetto: è stato tra i primi ad «accorgersi» di Maurizio Cattelan, ad esempio, e prima ancora di Luigi Ontani. Allan McCollum, Félix González-Torres, Paul McCarthy, Charles Ray, Raymond Pettibon, Dan Graham, Gordon Matta-Clark, Angela Bulloch, Hermann Pitz, Candida Höfer, Pia Stadtbäumer, Hermann Nitsch, John Armleder, Dominique Gonzalez-Foerster, e poi i giovani da lui scoperti e sostenuti, come Marco Mazzucconi, Stefano Arienti, Sergio Ragalzi, Salvatore Astore, Luca Vitone, Maurizio Vetrugno, Umberto Cavenago, Eva Marisaldi e Mario Airò, sono solo alcuni degli artisti che hanno esposto a Rivara nelle due mostre che annualmente Paludetto organiza nell’equinozio di primavera e d’autunno.
Il 2015 è dedicato al trentennale del Castello di Rivara come Centro d’arte contemporanea, una storia raccontata attraverso fotografie che documentano gli allestimenti via via proposti.
Franz Paludetto, lei ha più volte dichiarato che la sua lunga vicenda di gallerista non è nata da un progetto o da un programma e che tutto si è svolto anche in base alla casualità, come il fatto di essersi trovato a Torino nel 1956, lei originario di Oderzo nel trevigiano, per aver sbagliato treno. Ma c’è stata una linea che l’ha guidata nel corso della sua attività?
Intanto vorrei precisare che festeggio i trent’anni del Castello di Rivara, ma che da più di cinquant’anni sono nel mondo dell’arte. Il mio primo obiettivo (o se vuole la mia linea) è stato quello di cercare e affermare una mia identità e una mia autonomia, senza copiare gli altri. Ecco perché, ad esempio, nel 1973 mi sono avvicinato agli azionisti viennesi e sono stato il primo a organizzare una mostra di Hermann Nitsch. Allo stesso modo, ho proposto gli artisti di Los Angeles, da McCollum a Charles Ray quando tutti puntavano su New York.
Ed è stato il primo a dedicare una mostra a Gina Pane...
Fu lei a venirmi a cercare. Io ero agli inizi, avevo aperto un piccolo spazio proprio di fronte all’Accademia di Belle Arti. Gina Pane all’epoca era agli inizi e molto apertamente mi disse che avrebbe voluto fare una mostra da Jean Larcade, noto gallerista di Parigi, ma aveva bisogno di rafforzare il suo curriculum. Fu così che installò in galleria la sua opera con la sabbia, «Stripe Rake», ora nella collezione Viglietta qui in Piemonte. Non solo, ma tramite quella mostra conobbi Larcade, con il quale entrai in società e aprii il mio secondo spazio, più ampio, in via Carlo Alberto, la LP220, con le iniziali dei nostri cognomi e un numero che, nella tradizione africana, vuol dire «lunga vita». Quando si sciolse la società con Larcade continuai da solo.
Facciamo un passo indietro. I suoi genitori avevano qualche legame con l’arte?
No, mio padre era stato un gerarca fascista e io provengo da una famiglia borghese.
Ma anche lei, prima di diventare gallerista, ha fatto altri mestieri, tra cui il direttore d’albergo e il venditore d’auto. Com’è che ha scelto di dedicarsi all’arte?
Intanto ero già un collezionista. E poi anche a Oderzo, nella mia gioventù, frequentavo alcuni artisti, tra i quali un certo Pin e Gina Roma. Capii che cos’era una galleria quando, a Venezia, vidi in vendita un quadro dello stesso Pin.
E dopo questo imprinting?
Proprio nell’albergo che dirigevo a Courmayeur nel 1958 organizzai la prima mostra e vendetti il primo quadro.
È vero che ha conosciuto Opalka perché era venuto a Torino a cercare pezzi di ricambio per la sua Jeep?
È verissimo. All’epoca le Jeep le produceva la Fiat. Fatto sta che nel mio spazio torinese feci una mostra di Opalka. Il primo acquirente fu un signore che portava un impermeabile macchiato e aveva un buco nella suola della scarpa. Mi chiede il prezzo di un dipinto e io rispondo 400mila lire. Lui ribatte proponendomi 170mila lire e un disegno e io, che dovevo pagare l’affitto, accettai. Solo quando andai a consegnare il dipinto al cliente, a casa sua, scoprii che si trattava dell’avvocato Forchino, uno dei più noti collezionisti torinesi. Mi sarei rifatto di lì a poco alla fiera di Basilea, quando nel mio stand si presentò un tizio con i pantaloni alla zuava chiedendomi il prezzo dei dipinti di Opalka che avevo in mostra: «Li vendo a 3 milioni», dico, inventandomi un prezzo di sana pianta. Fu così che vendetti due Opalka nientemeno che a Bruno Bischofberger.
E a Torino come andavano le cose?
Dovetti lasciare i locali di via Carlo Alberto, che la proprietaria aveva messo in vendita. Le dissi che me ne sarei andato in 24 ore in cambio di una buonuscita di 6 milioni di lire. Con quel denaro aprii la sede nel grattacielo in piazza Solferino. In seguito mi spostai ancora, in via Susa.
E intanto aveva aperto uno spazio a Calice Ligure...
Sì, fu Giorgio Ciam, che oltre a essere artista aveva anche una galleria, a consigliarmelo. Organizzai delle performance con Gina Pane, Nanda Vigo, Renato Mambor, Tino Stefanoni e Aldo Mondino. E allestii anche una mostra di Joseph Beuys.
Immagino che la scelta di trasferirsi in un castello a 30 chilometri di distanza da Torino rientri nel suo desiderio di massima indipendenza...
Vede, negli anni dell’Arte povera non mi sono mai avvicinato a Germano Celant o a Tommaso Trini, proprio per mantenere la mia autonomia. Preferivo Paolo Fossati oppure l’amicizia di Armando Testa, che mi spiegò una cosa vera su questa città.
Cioè?
Mi disse: «Vedi Franz, io ho una grande agenzia pubblicitaria, eppure la Fiat non mi ha mai chiesto di lavorare per loro. Ma stai sicuro che quando morirò questa città mi dedicherà una mostra in un museo». Cosa puntualmente avvenuta, come sappiamo. Ecco, Torino è questo tipo di città. Quanto a Rivara, riuscii a comprare dai soci che le possedevano le quote per acquistare il Castello vendendo i «Mille Fiumi» di Alighiero Boetti: non alla Galleria Civica d’arte moderna di Torino alla quale avevo proposto l’opera, ma a Francoforte. Inoltre all’ epoca possedevo il 60% di tutta la produzione di Pino Pascali: il «Cannone» ora esposto alla Biennale di Venezia era mio e lo vendetti ad Atene a 140 milioni. Altre opere di Pascali le cedetti a New York. Lei capirà: dovevo coprire un assegno da un miliardo e 150 milioni, quello che staccai per acquistare le ultime quote del Castello che mancavano.
A sentire quello che dice di Torino sembra di ascoltare la solita storia del profeta in patria...
Che cosa devo dirle? Quando ho venduto la giostra di Charles Ray sapevo che era un’opera importante, ma ho dovuto cederla a un privato, a Patrizia Sandretto Re Rebaudengo. Allo stesso modo ho contribuito, con le opere di Boetti, a un’altra collezione privata, quella dei Viglietta. Oggi ho una collezione di giovani, che va da Paolo Grassino a Francesco Sena e ne sono felice. Quello che mi dispiace sono le possibilità straordinarie che Torino ha avuto e che non ha colto.
Ad esempio?
I nostri musei avrebbero potuto avere le opere originali. Invece oggi chi viene a Torino a vedere l’igloo di Mario Merz si trova di fronte la copia della copia, perché quello «vero» è da un’altra parte. E oggi mi viene la malinconia a vedere la Gam che dedica una piccola mostra a Plinio Martelli, per non dire di Mondino, rifiutato dal Castello di Rivoli. Noi abbiamo avuto a Torino artisti che erano il fiore all’occhiello di questa città e ce li siamo lasciati sfuggire, abbiamo bruciato un’occasione irrecuperabile. Oggi non posso accettare una mostra di Calzolari che mi arriva confezionata dalla Francia, e intanto non si fa niente per Boetti. E adesso che cosa facciamo? Ricompriamo Carol Rama? Purtroppo manca una scuola, manca una tradizione. Quando si è aperto il Castello di Rivoli, in Germania avevano già trenta musei d’arte contemporanea, 240 Kunsthalle e 160 Kunstverein. E noi abbiamo la Promotrice delle Belle Arti.
Ma davvero la città è stata così avara con lei?
Torino è stata anche una città straordinaria, e quando pensavi di non farcela c’era sempre qualcuno che arrivava e risolveva la situazione, così, senza troppi calcoli. Ci sono stati personaggi fantastici, come Luciano Anselmino, titolare della galleria Il Fauno, che ha portato a Torino opere straordinarie di de Chirico o Andy Warhol. Di Anselmino ricordo un episodio. Una volta il gallerista Giuliano Martano, conoscendo le mie frequentazioni parigine, mi chiese di procurargli un Man Ray. Io andai a Parigi e tornai a Torino con «Le violon». Ma quando comunicai a Martano il prezzo, due milioni e duecentomila lire, lui si tirò indietro. Fortunatamente c’era con lui Anselmino, che si fece avanti e disse: «Lo compro io».
Lei non partecipa più alle fiere, cosa che tanti suoi colleghi ritengono indispensabile.
Adesso a Basilea se la tirano tanto, ma io ricordo che per partecipare andavo lì con l’auto carica di quadri, qualche giorno prima; magari capitava che qualche gallerista non si presentasse e mi davano lo stand... E ricordo che nel giardino davanti ai padiglioni ci trovavi quelli che facevano le sculturine in gesso. Posso dirle che Lucio Amelio dormiva nella sua Citroën perché non si poteva permettere l’albergo. Ecco, questa era l’atmosfera delle fiere. Oggi per certi miei colleghi sono importanti perché il collezionismo nelle città in cui lavorano non ha più la capacità di assorbire. Che cosa posso dirle? Sono cambiate tante cose. Negli anni Sessanta a Milano le mogli che si separavano dai grandi industriali aprivano boutique in via Manzoni; oggi aprono gallerie.
Non festeggia il trentennale del Castello di Rivara ad Artissima?
A me piacerebbe, ma secondo lei a chi tocca alzare il telefono per primo? Alla direttrice della fiera o a me che ho alle spalle una storia di cinquant’anni? Per restare all’attualità, mi spiega perché, nel momento in cui Camera, il nuovo Centro Italiano per la Fotografia, si apre con una mostra di Boris Mikhailov, un artista che io ho già presentato, non vengo interpellato?
È solo disattenzione?
No, è ignoranza, ma è pericolosa...
C’è chi dice che prima o poi le gallerie così come le abbiamo intese sino a oggi spariranno.
Io non sono d’accordo. Le gallerie esisteranno sempre perché sono quelle che cominciano a far crescere il primo germoglio e solo dopo verrà la verifica del museo. E sono le gallerie a dare la forza e l’energia agli artisti per continuare. Per restare a Torino, pensiamo ad artisti come Grassino, Sena o Ragalzi, che hanno fatto cose straordinarie e che non sono mai stati presi in considerazione dalle istituzioni museali.
Suo figlio Davide ha scelto di fare il suo stesso mestiere, nonostante un padre molto «ingombrante». Che tipo di rapporto avete?
Ottimo. Ci possono essere diferenze di gusto, ma questo è importante. L’unica cosa di cui mi lamento con lui è che non mi ha ancora dato un nipote. Professionalmente parlando, non voglio che la mia presenza condizioni le sue scelte, al punto che nella sede di Torino della galleria ho fatto togliere anche il nome Paludetto. Io sto a Rivara e lui a Torino. Non voglio che Davide sia conosciuto come «il figlio di Paludetto».
Quanta parte ha il mondo della finanza nel mercato dell’arte?
Ci sono queste società svizzere (hanno contattato anche me) che rilevano tutto il magazzino di una galleria e in cambio danno una parte di liquido e una parte in azioni. Quando una delle opere che sono state tue va all’asta, è tuo interesse farne salire le quotazioni perché così aumenta anche il valore delle tue azioni. Questo è il gioco.
C’è stato qualche artista che le ha dato delle delusioni?
Qualcuno mi ha dato qualche problema, non so... posso pensare a personaggi come Gianni Piacentino o Boetti, ma con loro c’è sempre stata una grandissima stima reciperoca. Solo i mediocri ti deludono.
C’è stata qualche tua scommessa poi rivelatasi sbagliata?
Io ho scommesso su Mondino, su Giorgio Ciam. E sono sicuro che ci sarà un recupero di questi artisti. Ho scommesso su Pascali e quando ho comprato da Sargentini per trenta milioni la prima partita di sue opere avevo coinvolto due facoltosi personaggi di Lecco; la seconda tranche la acquistai da Jolas per 20 milioni. Il vero problema oggi sono gli eredi, il controllo sui falsi. I francesi, a differenza nostra, sotto questo aspetto sono molto più strutturati.
Alcuni suoi colleghi scappano all’estero perché tra Iva al 22% e redditometro il mercato dell’arte in Italia è ancora più difficile. Perché lei rimane qui?
Capisco che se questi colleghi hanno dieci Fontana o venti Boetti devono sostenere il prezzo. Ma non è più il mio caso. Oggi io ho questo piccolo museo, con opere di artisti come Grassino o Astore, autori di generazioni più recenti. Con gli artisti ho un accordo: le opere non sono mie, ma restano di loro proprietà e me le lasciano in deposito per cinque anni. Se in cinque anni si vendono, avranno la loro percentuale.
Dopo cinquant’anni, ha ancora un sogno nel cassetto?
Io amo molto la montagna e allora vorrei fare una mostra a tremila metri di altitudine, con artisti che amino la natura e che vogliano vivere al di fuori dei condizionamenti della città.
Qual è il suo bilancio di mezzo secolo di attività?
Vede, io non sono mai stato un amante del possesso. Ho avuto la fortuna di vedere e avere opere straordinarie, di averle toccate, sostenute e vissute. E poi le ho rimesse in circolazione, perché non ha nessun senso tenere l’arte in cantina.
Pubblicato in «Il Giornale dell'Arte», n. 358, nov. ’15, «Vernissage», p. 6