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A Marrakech un patto afroasiatico

Federico Florian

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Una prospettiva fortemente politica sembra caratterizzare la sesta edizione della Biennale di Marrakech, aperta dal 24 febbraio all’8 maggio.

«Not New Now», titolo della rassegna, pare alludere all’importanza di uno sguardo critico sull’oggi, un presente attraversato da una profonda crisi politica e sociale. Come afferma la curatrice Reem Fadda, dello staff curatoriale del Guggenheim Abu Dhabi, «è questo il tempo per una maggiore consapevolezza civica che richieda azione e reattività».

La Biennale, gratuita per tutti e lunga undici settimane (per la prima volta nella sua breve storia), riunirà progetti artistici e di ricerca legati a urgenze socio-politiche: l’arte, così come intesa dalla Fadda, diviene una forma di resistenza culturale. In termini prettamente geografici, l’Africa e l’Asia costituiscono il focus della rassegna, una delle cui premesse è la solidarietà afroasiatica e l’ideale panafroamericano.

Molti i lavori appositamente commissionati per la Biennale, realizzati da una cinquantina di artisti in prevalenza africani e arabi. Tra di essi l’artista franco-marocchina Yto Barrada e la palistinese, di stanza a Londra, Mona Hatoum.

Una menzione va al progetto ideato dall’architetto Khaled Malas insieme a un collettivo di artisti e artigiani della Ghuta e di altre regioni della Siria, che prevede la costruzione di mulini a vento utilizzando materiali preesistenti, allo scopo di generare energia elettrica per gli ospedali siriani. Vari i siti in cui ha luogo la rassegna: tra questi Palais El Badi e Palais Bahia nella medina della città marocchina.

Federico Florian, 18 febbraio 2016 | © Riproduzione riservata

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A Marrakech un patto afroasiatico | Federico Florian

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