Un capo di abbigliamento che di recente è stato al centro di un acceso dibattito è il burkini, il costume da bagno «integrale» delle donne musulmane che l’estate scorsa era stato messo al bando su alcune spiagge della Costa Azzurra, sulla scia degli attentati di Nizza del 14 luglio. Non è la prima volta, e non sarà certo l’ultima, che un abito fa scandalo.
È di questo appassionante dibattito dell’epopea della moda, «e di una certa idea di libertà di fronte ai codici morali e sociali», che si occupa la mostra «Tenue correcte exigée! Quando l’abito fa scandalo» in corso al Musée des Arts Décoratifs sino al 23 aprile 2017. Ma la mostra non è nata dal tam tam mediatico legato al burkini. Già tre anni fa il conservatore e curatore Denis Bruno aveva riunito un team di ricercatori per studiare l’abito come provocazione, che sfuggendo cioè alle regole imposte dalla società diventa strumento di evoluzione, e perché no, di rivoluzione. È interessante notare che è una storia, per così dire, vecchia come il mondo.
La prima sezione, «L’abito e la regola», rinvia ad Adamo ed Eva felici e nudi nell’Eden fino a che non cedono alla tentazione. Nella tradizione ebraico-cristiana il concetto stesso di abito è legato al peccato originale. Dal Medioevo al XVIII secolo si è imposto allora il diktat della decenza e ogni stravaganza in materia di abbigliamento è stata condannata. Ma le regole sono fatte per essere infrante. Nelle corti reali schiave dell’etichetta aveva scandalizzato il ritratto di Maria Antonietta in abito da camera dipinto da Élisabeth Vigée Le Brun. Più di recente, nel 1985, era stata la volta del collo Mao di Thierry Mugler indossato in Parlamento dall’ex ministro della Cultura Jack Lang.
La seconda sezione, «Ragazza o ragazzo?», parla dei casi in cui il guardaroba femminile ha pescato in quello maschile. Si va dalla pulzella Giovanna d’Arco allo smoking per donna creato da Yves Saint Laurent nel 1966, che legittima una volta per tutte la presenza del pantalone negli armadi delle donne. Il contrario è ben più raro. La gonna per uomo, al di là del tradizionale kilt scozzese, rilanciata nel 1960 da Jacques Esterel e ripresa da Jean Paul Gaultier, resta assente dal quotidiano maschile.
L’ultima sezione, «La provocazione e l’eccesso», parla del «troppo»: «troppo corta» come le minigonne di Pierre Cardin e Paco Rabanne, «troppo larghe» come le culotte maschili del 1600 e i baggy anni Novanta, «troppo trasparente» come l’abito di Lady D del 1981, fino al «troppo négligé» come gli abiti strappati di Yohji Yamamoto.