Come tutti i giovani artisti della sua generazione, Giuseppe Uncini (Fabriano 1929-Trevi 2008) esordiva nel dopoguerra sotto il segno dell’Informale, la corrente artistica che conferiva alla sola materia, bruta e per l’appunto informe, il compito di trasferire nel reale il magma di un’interiorità lacerata e stravolta dalla guerra. A Roma, dove si era trasferito, si serviva di terre, tufi, sabbia, cenere («anche per necessità», confermò un giorno a chi scrive, con il consueto understatement: quello che è proprio dei grandi) per comporre opere in cui la materia era fermentante, autogenerante.
Non era questa la sua strada, però. Come avrebbe scritto lui stesso nel 1974 a Maurizio Fagiolo dell’Arco, «fu tra il ’58-’59 che venne fuori il primo “cementarmato”, un oggetto tutto costruito (niente costruttivismo in senso più o meno storico, come molti tentarono poi di teorizzare) ma “costruire” inteso come [...] concretizzare-materializzare lo spazio e il segno: il segno come presenza, lo spazio come misura». Nei «Cementarmati» il cemento, venato dalle impronte del legno della cassaforma, era tramato dalla rete dei ferri che lo innervava, mettendo a nudo il processo costruttivo in una ricerca innovativa e fortemente anticipatrice, presto riconosciuta dalla critica. Del 1961 è la prima importante personale alla galleria L’Attico di Roma. E proprio dal 1961 prende il via la mostra «Giuseppe Uncini. Opere 1961-2007», curata da Demetrio Paparoni con l’Archivio Uncini per la galleria milanese Dep Art Gallery (dal 24 ottobre al 27 gennaio prossimo).
Come dichiara il titolo, la mostra segue l’intero suo percorso e lo fa attraverso 28 opere, esemplari dei diversi cicli che in quasi cinque decenni di lavoro lo hanno scandito: dopo gli iconici «Cementarmati», con le lastre di cemento «cucite» dai ferri e utilizzate proprio «come nei cantieri [...] per costruire le cose di cui l’uomo ha bisogno», ecco i «Mattoni», altro materiale industriale connaturato alla costruzione («mattone = costruzione-modulo-misura-spazio-raziocinio, etc, e con i mattoni realizzai muri, colonne, archi, portali, speroni, immagini di paesaggio quotidiano, aggiungendo le relative “ombre costruite” (cemento)»: è sempre Uncini a parlare a Fagiolo dell’Arco), poi, appunto, le «Ombre», frutto delle sue investigazioni sul modo in cui noi (non) percepiamo le ombre degli oggetti («quasi fossero complementi di “serie B”»), da lui materializzate invece nel cemento, in una riflessione con cui dà vita a uno dei momenti più significativi della scultura del XX secolo.
E poiché nel suo lavoro ogni ciclo scaturisce, come per germinazione, dal precedente, entrano poi in gioco le «Dimore», gli «Spazi di ferro», le «Architetture», che segnano il suo ultimo tratto di percorso, restando sempre nell’ambito del «costruire» ma incorporando sempre più, tra il «pieno» del cemento, anche il «vuoto», tramato da ferri che ne enfatizzano la presenza.