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Peter Hujar, «Susan Sontag»

© The Peter Hujar Archive / VG Bild-Kunst, Bonn 2025

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Peter Hujar, «Susan Sontag»

© The Peter Hujar Archive / VG Bild-Kunst, Bonn 2025

Vediamo e siamo visti: parola di Susan Sontag

Alla Bundeskunsthalle di Bonn una mostra ricca di immagini e spunti sulla vita di una delle voci più lucide del contemporaneo. Resta però in superficie l’analisi della sua riflessione sull’etica della fotografia

La mostra «Susan Sontag: Seeing and Being Seen» alla Bundeskunsthalle di Bonn fino al 28 settembre comincia con un grande specchio. La superficie riflettente ci pone immediatamente di fronte alla teoria che ha attraversato tutta la vita e la carriera di Susan Sontag (New York, 1933-2004): vediamo e siamo visti. Lei ne era profondamente consapevole, sia come intellettuale sia come donna. Non è un caso che lo sguardo rappresenti la conditio sine qua non dell’esperienza artistica e che Sontag all’arte abbia dedicato tutta sé stessa, sin da giovanissima. 

Scrittrice, critica e anche regista, dalla metà degli anni Sessanta fino alla sua scomparsa Sontag ha partecipato attivamente alla scena intellettuale internazionale portando alla luce temi fino ad allora poco dibattuti. Tra questi, il ruolo dell’immagine fotografica nella comprensione del mondo, a cui è dedicata la mostra. «Seeing and Being Seen» articola i nuclei tematici del suo percorso personale e professionale, dimostrando quanto queste due dimensioni fossero, per lei, indissolubilmente intrecciate. Nella prima sezione viene dato spazio alle fotografie in cui Sontag è il soggetto ritratto, evidenziando come l’immagine fotografica abbia contribuito alla costruzione del suo personaggio pubblico. I ritratti di Diane Arbus, Richard Avedon, Peter Hujar, suo caro amico, e le fotografie personali scattate dalla compagna Annie Leibovitz, hanno consolidato la sua reputazione di «Dark Lady degli intellettuali». In una teca, un ritaglio di giornale riporta parole che svelano il suo rapporto ambivalente con la macchina fotografica: «Non mi sento minacciata. Ma mi sento disarmata (...) Immobilizzata davanti allo sguardo della fotocamera, sento il peso del mio volto, la sporgenza e la carnosità delle mie labbra, l’apertura delle mie narici, la ribellione dei miei capelli. Mi sento dietro la mia faccia, mentre guardo fuori dalle finestre dei miei occhi, come il prigioniero con la maschera di ferro». 

Dopo questa introduzione che suggerisce un approfondimento progressivo del tema fotografico, la mostra prende direzioni diverse: viene messo in luce il suo impegno nel riconsiderare il rapporto tra cultura alta e cultura popolare (celebre il suo postulato secondo cui l’emozione suscitata da un dipinto di Robert Rauschenberg potesse essere paragonata a quella evocata da una canzone delle Supremes, affermazione che suscitò ampio scalpore) e il suo coinvolgimento con la sottocultura queer newyorkese. Nel 1964, con Notes on “Camp”, Sontag divenne una sorta di pop star della scena letteraria, esplorando un’estetica fatta di esagerazione, ironia e sovversione dei ruoli di genere. Segue una sezione che esplora le riflessioni nate dalla sua diagnosi di un cancro al seno negli anni Settanta. In questo periodo Sontag scrisse Malattia come metafora, in cui analizzò la stigmatizzazione dei malati, affrontando anche il tema dell’Aids. La scrittrice si chiede come sia possibile rendere visibili le persone malate senza ridurle a vittime, e una possibile risposta emerge dal lavoro di Annie Leibovitz, che raggiunse questo obiettivo ritraendo un’amica affetta da Aids e realizzando la campagna della San Francisco Aids Foundation. In queste immagini, la fotografia, a partire da un’esperienza intima e profondamente autobiografica, assume una funzione sociale e politica, come dimostrato ancora quando, nel 1999, a Sontag viene diagnosticato un secondo cancro. Leibovitz documenta questa fase della loro vita, restituendo la progressione della malattia e il ritrovato senso di controllo da parte della sua compagna. 

Solo dopo la sezione «Essere donna» si ritorna ad approfondire il ruolo della fotografia, al quale sono dedicate due sale. Una scelta sorprendente, se si considera che la mostra dovrebbe proprio celebrare l’eredità di Sontag in questo ambito. Si parte dal celebre On Photography (1977), titolo presente nella libreria di ogni persona interessata alla fotografia, in cui Sontag analizza i meccanismi insiti nel mezzo fotografico, soprattutto in relazione ai rapporti di potere e squilibrio. Tra le opere esposte troviamo uno scatto di fine ’800 di Eugène Atget, ritratti di August Sander, l’iconica immagine di «due peperoni che si abbracciano» di Edward Weston (in cui Sontag riconosceva un «erotismo dell’arte»), e fotografie «umaniste» di Walker Evans, per lei capaci di appianare le differenze «tra il bello e il brutto, l’importante e il banale». Il percorso si sviluppa poi attraverso immagini di reportage che illustrano le teorie espresse nel secondo libro cardine per la comprensione della fotografia: Davanti al dolore degli altri, pubblicato venticinque anni dopo On Photography, all’inizio della guerra in Iraq. 

Qui, ampio spazio è dedicato al caso Riefenstahl. Dieci anni dopo aver definito «capolavori» i film di propaganda nazista «Triumph des Willens» (1935) e «Olympia» (1938), Sontag ritrattò la sua posizione in occasione della pubblicazione del libro Nuba della regista tedesca. La mostra ricostruisce, attraverso fotografie, appunti e testi, come Sontag abbia smascherato i tratti dell’estetica fascista nell’opera di Leni Riefenstahl: la deindividualizzazione, l’esaltazione della sottomissione, la glorificazione della cieca obbedienza. Nel complesso, l’approfondimento dell’incredibile contributo che Susan Sontag ha dato alla teoria della fotografia si dispiega attraverso un buon numero di immagini storiche e le relative didascalie, ma manca un’analisi davvero esaustiva. Ne risulta una mostra che si configura più come un affascinante racconto biografico che come una vera ricognizione sull’etica del vedere. In un’epoca in cui è quanto mai urgente ricordare la potenza e l’ambiguità della fotografia (mezzo che può essere strumento di denuncia ma anche di manipolazione), questa esposizione, seppur ricca di spunti, rischia di lasciare solo l’acquolina in bocca. Avrebbe sicuramente meritato maggiore attenzione uno dei concetti centrali espressi da Sontag sulla fotografia: la necessità di farsi «ossessionare dalle immagini», per non dimenticare ciò di cui gli esseri umani sono capaci gli uni nei confronti degli altri. Oggi, questo monito dovrebbe farci riflettere.

Jill Krementz, «Susan Sontag», 1974. © Jill Krementz

Rica Cerbarano, 21 giugno 2025 | © Riproduzione riservata

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