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Milano Fashion Week: giorni 1 e 2

Archetipi? Prototipi? Stereotipi? Da Gucci c’è Demna con le sue caricature. Simone Bellotti più Jil Sander di Jil Sander. Ma anche tanta confusione sotto al cielo. E qualche sprazzo di bella autonomia

Jacopo Bedussi

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È iniziata martedì 23 settembre, tra grandi aspettative dovute ai debutti eccellenti in calendario e una generale inquieta tensione dovuta allo stato incerto dell’industria tutta, la settimana della moda milanese. Tensione anche perché, in tempi interessanti come questi, si rischia di non sentirsi a proprio agio a parlare di moda. E solo una decina di giorni fa usciva su «Interview» una bella intervista di Charlie Porter a Miuccia Prada e Raf Simons in cui «La Signora» diceva: «Penso che la moda sia per quando si è felici, per quando non si hanno problemi, perché nel momento in cui qualcuno ha un problema di salute o è in guerra, la moda diventa sicuramente irrilevante». 

Il primo giorno tutti gli occhi su Gucci, con il debutto di Demna come direttore creativo. Debutto invero dichiaratamente in minore, almeno a parole, e forse molto voluto soprattutto dalla proprietà (fresca, peraltro anch’essa, di un fondamentale cambio al vertice, con l’addio di Stefano Cantino come ceo dopo meno di un anno e l’arrivo, sebbene già di famiglia Kering, di Francesca Bellettini al suo posto) per dare un segnale a clienti e azionisti. Demna aveva dichiarato sin dall’annuncio del suo arrivo che la prima vera dimostrazione del suo Gucci sarebbe arrivata a febbraio con la prossima Fall Winter. Tecnicamente, in effetti, non si è trattato in questo caso di una sfilata nella sua forma classica. 

Anticipato dal rilascio sul profilo Instagram di un lookbook di una collezione intitolata «La Famiglia», è poi arrivato un evento, una prima in grande stile per la presentazione di un mediometraggio intitolato «The Tiger» diretto da Spike Jonze e Halina Reijn con cast stellare: insomma, cinema nel vero senso della parola. La collezione si è manifestata quindi in capitoli multimediali. Prima sui social e poi con un gala sul cui red carpet erano «invitati» i modelli che indossavano i look della collezione mescolati a celebrity e stampa e tutto il resto. Cortocircuito e amplificazione. E anche molto glamour e momentum, che a Milano, va detto, mancavano da un bel po’.

I look, che nella cartella stampa vengono definiti archetipi, sono in realtà stereotipi, se seguiamo con ortodossia la triade archetipo/prototipo/stereotipo. O più banalmente personaggi, reali o evocati, caricature satiriche, core di Tiktok. Ci sono, così proprio definiti dal brand, il cocco di mamma e il ragazzo della porta accanto, la very important client e la snob, il bastardo e il nerd, la bomba (sexy, Ndr) e la it-girl. Come in un album di figurine ironico-decadente o in un «Indovina chi?» dell’algoritmo. 

Gucci

Gucci

La tassonomia sarcastica delle sottoculture che non lo sono, come a decretare la fine delle sottoculture che furono, in un requiem grottesco, è una splendida ossessione che Demna porta avanti praticamente da sempre. Nella sfilata Fall Winter 2017 lo fece con Vetements, il brand fondato insieme al fratello Guram prima di venire assorbito dai grandi gruppi del lusso, in cui aveva presentato un look proprio chiamato «La Milanesa», esattamente come uno di quelli presentati ora da Gucci. 

Oppure con una sfilata losangelina di Balenciaga in cui tutta l’elevation mostrificata dei corpi californiani veniva restituita in passerella in un’intersezione sentimentale di adorazione e spavento. 

Ma anche la destrutturazione mediatica della sfilata è una sua invenzione originale. Come quando, nell’ottobre del 2021, un altro show di Balenciaga a Parigi prese la forma di una prima di un corto «The Simpsons»-izzato, una sfilata cartoon sullo schermo mentre al Théâtre du Châtelet grande evento tra tappeti rossi e invitati che esistevano tanto in sala quanto sullo schermo. La nuova collezione sarà poi disponibile da subito in un ristretto numero di boutique. Come un drop di quelle limited edition che creavano frenesia e lunghe code quando la moda ancora andava di moda.

Il Gucci di Demna è un Frankenstein interessante, e vivaddio finalmente ironico (un registro che nella moda nessuno osa utilizzare ormai da anni, precludendosi infinite possibilità e slanci), che non ha nulla a che fare con la prova dei vestiti. Serve a definire il punto di partenza, a sintonizzare registro e linguaggio, ad allontanarsi dal tentato quiet luxury senza dare adito a fraintendimenti. A testare il livello di derisione che il suo pubblico è disposto ad accettare prima di innervosirsi, altra grande abilità di Demna, che l’ha fatto tanto con lo strumento del pricing in passato quando con il design, riuscendo (quasi) sempre ad avere ragione. Quel che resta da capire, ma solo il tempo può dirlo, è se il sistema è ancora capace di apprezzare, digerire e desiderare queste boutade e questa dinamica sadomasochistica e anche quanto il Milano-centrismo del discorso sui tipi umani sia leggibile e rilevante in altri continenti e contesti. Nonché quanto questo modo/mondo sia in grado nel tempo di sedimentare e diventare terreno fertile per poi, alla fine, anche vendere.

Jil Sander

Jil Sander

L’altro atteso debutto di questi primi giorni era quello di Simone Bellotti da Jil Sander. Designer e narratore di indiscutibile mestiere e cultura, dopo un’infelice parentesi da Bally, era forte il desiderio generale di vederlo fare bene qui, in un ambiente che più gli si confà per naturale affinità e libertà intellettuale e anche perché tutti pensano che sia bravo e meriti molto.
In maniera uguale e contraria, l’approccio è assimilabile a quello di Demna, ossia tirare una riga sul foglio e ricominciare. Ma non da capo, perché quello che Bellotti ha proposto è stata una collezione più Jil Sander di quanto non abbia mai forse fatto Jil Sander stessa.

Ligio e quasi pedissequo, ha riproposto forme, volumi, colori. In una parola: vestiti che chiunque segua la moda riconoscerebbe a una prima occhiata come propri del marchio.
Florilegio però e non enciclopedia, perché Bellotti è un autore e nella scelta già fa un discorso. C’è poco però oggi da dire, se non «bello» se Jil Sander piace e «brutto» se Jil Sander non piace. Ma se questo carotaggio nell’archivio è ancora puramente analitico, non ci sono dubbi che, collezione dopo collezione, l’archivismo diventerà forza attiva e propositiva.

Rimanendo in tema mega brand, da Fendi sembra di respirare incertezze. Non brutta, non bella, di certo non indimenticabile. Molto poco Fendi. Sembra che nella titubanza si sia scelta una strada che a Milano si imbocca spesso quando non si sa bene come gestire una collezione: «facciamola Prada». Con anche soundtrack elettronica. La stessa strada che a questo giro hanno preso purtroppo anche da N°21, ma senza musica elettronica.

Glenn Martens per Diesel ha invece tentato la via della presentazione alternativa e wannabe virale, senza riuscirci troppo. Modelle e modelli dentro uova aliene in plexi trasparente. Che dopo la presentazione alla stampa sono state anche sparse per la città in una specie di gioco acchiappali tutti à la Pokémon Go. Onestamente superfluo, e i vestiti non si capivano neanche così bene.

Arrivando poi al più effervescente mondo dei medi e piccoli marchi, Antonio Marras parla di D.H. Lawrence, Frieda von Richthofen, Katherine Mansfield e il Bloomsbury Group, in viaggio in Sardegna. Che cosa vuol dire? Chi lo sa. Ma lui sa fare ed essere sé stesso meglio di chiunque altro, e se quel che fa piace, bene, sennò chisseneimporta. E in questo radicalismo una dichiarata ispirazione, che altrove risulterebbe squinternata, suona invece come una pernacchia ben fatta in faccia all’impero dell’artigianalità e della tradizione e dell’elevation. E questo è sempre un bene. 

Da Vivetta, freschi di riorganizzazione aziendale, si propongono storie, storielle e divertissement subacquei in scale micro e macro. Surrealismi sottomarini, abissali, ma anche più domestici e rassicuranti oppure scherzosi, come se si giocasse in piscina o addirittura in una vasca da bagno. Ai colletti-caposaldo si aggiungono forme e movimenti, chissà se di una sola stagione o inizio di una costruzione di segni. Arricciature e pannelli che ridisegnano la vita e amplificano il passo, e camicie affermative. Addirittura, trasparenze e sensualità. Un nuovo inizio che non fa acqua da nessuna parte. Da Missoni mancano prese di posizione e senso dell’oggi. Da Etro c’è confusione.

Vivetta

Jacopo Bedussi, 25 settembre 2025 | © Riproduzione riservata

Milano Fashion Week: giorni 1 e 2 | Jacopo Bedussi

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