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Anna Aglietta
Leggi i suoi articoliSi possono usare uccelli feriti, cavalli blu e composizioni astratte per narrare le difficoltà sociali, politiche e ambientali affrontate da chi è in esilio? All’International Center of Photography (Icp) di New York, la fotografa di origine iraniana Sheida Soleimani (classe 1990) ci dimostra che è possibile. Aperta al pubblico fino al 28 settembre, la sua personale «Panjereh» (in farsi significa finestra o passaggio) presenta oltre 40 scatti tratti dal progetto, tuttora in corso, «Ghostwriter».
Con la serie, Soleimani vuole raccontare le esperienze migratorie dei genitori, forzati a lasciare l’Iran nei primi anni Ottanta come rifugiati politici, traendo dalle loro esperienze personali delle conclusioni universali sul sistema geopolitico contemporaneo.
Per riuscirci, l’artista rifiuta un approccio documentario o giornalistico, preferendo invece delle metafore ispirate direttamente dal Surrealismo e Realismo magico per raccontare la propria storia familiare e il contrasto tra Occidente e Medio Oriente. «Gli spazi magicamente fantasiosi di Soleimani creano la complessità necessaria per raccontare queste storie, onorandone la ricchezza e la natura continuamente in evoluzione», racconta Elisabeth Sherman, curatrice della mostra.
Le sue composizioni, che combinano immagini di archivio, persone, accessori di scena e animali, sono quadri costruiti ad arte, in cui ogni dettaglio è carico di simbolismo e significati. In questo senso, la fotografa pratica una forma di «ghostwriting», narrando le esperienze dei genitori senza utilizzare la loro voce.
Per la prima volta esposte al pubblico, «Panjereh» include anche le fotografie analogiche della serie «Flyways»: protagonisti di queste stampe, su piccola scala, sono uccelli migratori feriti mentre attraversavano zone altamente popolate, di cui Soleimani si prende cura con il suo lavoro in un centro di riabilitazione della fauna.

Sheida Soleimani, «Affinity», 2024

Sheida Soleimani, «Laleh», 2023