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Antonio Pichillá Quiacaín, «Bailando con una piedra», 2022

Photo: René De Carufel. Courtesy of the artist

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Antonio Pichillá Quiacaín, «Bailando con una piedra», 2022

Photo: René De Carufel. Courtesy of the artist

Le radici comuni della Terra alla Bienal de Arte Paiz

La 24ma edizione della mostra in Guatemala è un viatico per creare ponti tra geografie e identità, in un’epoca di muri e in un territorio lacerato dalla propria storia

Matteo Bergamini

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Nata nel 1978, la Bienal de Arte Paiz è la sesta più antica del mondo e, nel continente americano, seconda solo a quella di San Paolo. Da Città del Guatemala la manifestazione si è sviluppata per più di quarant’anni ininterrottamente, mostrando al mondo i propri artisti e inglobando le novità dei linguaggi e delle tendenze contemporanee. A guidare la 24ma edizione sarà Eugenio Viola (Napoli, 1975), già curatore nel 2022 di «Storia della notte e destino delle comete», il Padiglione Italiano alla 59ma Biennale di Venezia, rappresentato da Gian Maria Tosatti, e attualmente direttore del Mambo-Museo de Arte Moderno de Bogotá, in Colombia, dopo una carriera internazionale al Pica-Perth Institute of Contemporary Art, in Australia, e al Madre di Napoli. 

Sotto il poetico titolo «L’Albero del Mondo», oltre 40 artisti occuperanno vari spazi tra Città del Guatemala e Antigua, città a circa 45 chilometri dalla capitale del Paese, dichiarata Patrimonio Unesco dal 1979, che fu a sua volta capitale del Regno della Guatemala dal 1543 fino al 1773, anno in cui un terremoto la distrusse quasi completamente. Gran parte delle opere saranno nuove commissioni, ci racconta Viola, che non si esime dal commentare in maniera più ampia lo «stato di salute» della costellazione delle biennali: «È un format piuttosto in crisi; come sappiamo, quella di Venezia nacque in tempi di Esposizioni Universali e anche il sistema dei padiglioni rispondeva a quella logica. Oggi viviamo in un mondo decentralizzato e assolutamente globalizzato, dove anche la Biennale di Venezia vive della concorrenza spietata con tutte le “colleghe” sparse in giro per il mondo. Inoltre, quasi tutte le biennali, salvo alcune eccezioni come Sydney, Sharjah o Busan, hanno problemi finanziari e noi curatori, ormai da tempo, ci dobbiamo trasformare in fundraiser, attivando tutte le nostre conoscenze per poter alzare le possibilità: il lavoro, così, si svolge per moltissimo tempo focalizzato su questioni burocratico-amministrative per facilitare i budget. Un processo impari, che denuncia i problemi, a loro volta globali, che incidono sulla vita delle arti visive». 

Maria José Arjona, Erick Boror, Seba Calfuqueo, Jeffry Càn, Tania Candiani, Ali Cherri, María Adela Díaz, Adji Dieye, Elyla, Ximena Garrido-Lecca, Igor Grubić, Dor Guez, D Harding, Alevtina Kakhidze, Kite, Jorge de León, Carlos Martiel, Tuan Andrew Nguyen, Chelsea Odufu, Veronica Riedel, Christian Salablanca, Jaanus Samma, Mithu Sen, Hiraki Sawa, Balam Soto, Jennifer Tee, Simón Vega, Martín Wannam, Zhang Xu Zhan, sono alcuni dei nomi annunciati per «L’Albero del Mondo», che si sommano ad altri «compagni di viaggio»: «La selezione degli artisti è partita ovviamente dal contesto mesoamericano e del Sud globale, ma è anche vero che la maggioranza dei presenti sono professionisti con cui ho già lavorato, da Orlan, con la quale sono praticamente cresciuto, a molti altri che sono transitati in questi anni al Mambo, come Voluspa Jarna e Kader Attia, Ana Gallardo e Luz Lizarazo, che non aveva mai avuto una mostra istituzionale prima che fosse invitata da me. E poi Gian Maria Tosatti e Regina José Galindo, grazie alla quale ho cominciato a conoscere il Guatemala prima ancora di visitarlo, entrambi compagni di lunghi percorsi professionali; Antonio Pichillá, che rappresenta come il tessuto diventi uno strumento di resistenza e di resilienza, soprattutto per quanto riguarda gli artisti indigeni guatemaltechi».

Territorio stratificato, naturalisticamente formidabile, vivo di lacerazioni, ferite e contraddizioni, il Guatemala ha una storia molto simile a quella della Colombia: una guerra civile lunga decenni, che ha colpito principalmente le popolazioni indigene, soprattutto perché i territori ancestrali sfortunatamente hanno coinciso con le rotte internazionali della droga: «Eppure, come quasi sempre succede, tutte queste difficoltà hanno alimentano un milieu artistico estremamente vivo», ricorda Viola. 

E vivi, infatti, sono tutti gli artisti invitati a «L’Albero del Mondo» le cui produzioni, a Città del Guatemala, dialogheranno anche con una trentina di opere precolombiane Maya (al momento della conversazione con Eugenio Viola non è ancora stato ufficializzato la spazio dove si terrà questo «incontro», Ndr), presentate in collaborazione con la Fundación Ruta Maya. Oltre a questo, per la prima volta nella storia della Bienal de Arte Paiz, sarà mostrata una selezione della collezione della Fondazione, costituita nei primi anni di svolgimento della manifestazione, fino alla fine degli anni Ottanta, quando la mostra non aveva un piano curatoriale. 

E proprio della sua curatela, e della nascita del tema de «L’Albero del Mondo», Eugenio Viola racconta di una certa complessità con la quale confrontarsi: «Quando mi hanno chiesto di presentare un concept, nel processo di selezione dei progetti, mi sono sentito in grande difficoltà: mi chiedevo come potevo io, bianco, egemonico, parlare a un pubblico che ha un background e una storia così diversa dalla nostra. In Guatemala il 60% della popolazione è ancora indigena, si identifica come Maya e parla le lingue originali. C’è un’ancestralità che ti attraversa in ogni momento. Così ho scelto di concentrarmi sulla figura dell’albero sacro della vita, che attraversa il mondo e si trova in cosmogonie diversissime per geografia, dalle greco-romane alle baltiche, fino a quelle delle Americhe: da sempre credo che l’arte debba creare ponti e non barriere. Perfino Dante, nella Divina Commedia, nel percorso ascensionale al Paradiso, si rifà all’Axis Mundi. L’albero, in fondo, ci dà la possibilità di mappare le contraddizioni e i paradossi della contemporaneità, attraverso quella metafora rizomatica analizzata anche da Deleuze e Guattari, attraverso “Mille Piani”: la connessione tra la radice e l’etereo della virtualizzazione del mondo ramificato creano una ciclicità che ci riconnette ancora una volta alla cosmologia». Di nuovo, tornando ai Maya, vale la pena segnalare anche l’immagine guida della Biennale, creata dall’artista Erick Boror e dedicata alla figura dell’albero sacro, con due colori che anche nella cultura occidentale hanno a che fare con la spiritualità e l’avvicinamento al cielo: l’oro e il blu oltremare, tono sacro tanto degli stessi Maya, dei Misak, uno dei popoli originari della Colombia, dei Mapuche, popolo amerindio delle aree centrali e meridionali del Cile e del Sud dell’Argentina, e assunto anche come il nostro colore della trascendenza, da Giotto a Yves Klein. 

Così, «L’Albero del Mondo», si trasforma anche in una chimera di relazioni, di aperture, come è il titolo dell’ultimo progetto curato da Viola al Museo di Arte Contemporanea di Santiago del Cile «Quimeras» (fino al 30 settembre), un dialogo tra l’italiano Eugenio Tibaldi e il cileno Patrick Hamilton, concepito in occasione del 50mo anniversario della Biennale di Venezia del 1974, quando per la prima volta (sotto la guida di Carlo Ripa di Meana, Ndr) la Mostra Internazionale assunse una posizione politica deliberata, contro la dittatura di Pinochet. 

E oggi, come i messaggi del passato possono essere reinterpretati e applicati alle sfide attuali? L’arte può essere un baluardo di resistenza democratica? E l’arte «politica» è davvero ancora rilevante nell’era globalizzata?

«Quella Biennale fu uno spartiacque, ma era la prima organizzata dopo il 1968, negli anni de “L’immaginazione al potere”, un contesto utopico che oggi non c’è più: l’arte dovrebbe includere la coesistenza di tutte le possibili differenze, ma purtroppo i sistemi di potere, tutti, difficilmente fanno eccezioni», chiude Eugenio Viola. Per ora, l’appuntamento per sedersi sotto la chioma del grande albero e lasciarsi sedurre dalle sue storie che dall’Italia arrivano al Guatemala, passando per Cina, Croazia, Libano è dal 6 novembre 2025 al 15 febbraio 2026.

Matteo Bergamini, 20 luglio 2025 | © Riproduzione riservata

Le radici comuni della Terra alla Bienal de Arte Paiz | Matteo Bergamini

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