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Matteo Bergamini
Leggi i suoi articoli«Una delle maggiori difficoltà è stata resistere alla tentazione di semplificare il significato dell’essere umano, specialmente nel contesto di una grande mostra internazionale»: inizia così la conversazione con Bonaventure Soh Bejeng Ndikung (1977), direttore dell’Haus der Kulturen der Welt di Berlino e capocuratore della 36ma Biennale di San Paolo (6 settembre-11 gennaio 2026 al Padiglione Ciccillo Matarazzo), che quest’anno prende in prestito per il suo titolo un verso del poema Da calma e do silêncio della scrittrice brasiliana Conceição Evaristo (1946): «Nem todo viandante anda estradas. Da humanidade como prática» (Non tutti i viandanti percorrono strade. Dell’umanità come pratica). E infatti nella Biennale di Bonaventure, che guida insieme al team composto dai curatori Alya Sebti, Anna Roberta Goetz e Thiago de Paula Souza, oltre alla cocuratrice at large Keyna Eleison e alla consulente Henriette Gallus, i «viandanti» di ieri e di oggi, gli artisti, più che attraversare semplici frontiere si muovono in modo liquido, incrociando cieli ed estuari. «Questa edizione della Biennale invoca la liberazione dalle definizioni violente e statiche di umanità a lungo sostenute dallo stato-nazione, e abbraccia una comprensione più ampia di che cosa significhi l’idea di appartenenza. Attraverso le opere, siamo invitati a immaginare un’umanità basata sull’interdipendenza, la cura e la solidarietà», spiega Alya Sebti. Tra i vari momenti che hanno segnato l’avvicinamento all’apertura della 36ma edizione, anche quattro «Invocazioni», una serie di incontri con poesia, musica e dibattiti, esplorando le nozioni di umanità in altre geografie: Tokyo, Guadalupa, Marrakech e Zanzibar, quindi agli antipodi rispetto alle latitudini brasiliane. Ma a che cosa si deve l’assenza di coinvolgimento delle comunità di San Paolo o del Brasile in generale? «La domanda non è solo giusta, ma necessaria, spiega Keyna Eleison. Le “Invocazioni” sono stati modi di incontrare poetiche che, sebbene lontane, riverberano echi vicinissimi alle questioni che muovono questa Biennale. Ma lo straordinario accade anche qui, quotidianamente, ed è per questo che il campo ampliato del programma pubblico della 36ma Biennale è così importante. La partnership che abbiamo siglato con la Casa do Povo (centro culturale di San Paolo, Ndr) è un modo di pensare e costruire in comunità. Inoltre, per tutto il periodo espositivo, avremo un programma pubblico pulsante dentro il Padiglione della Biennale con talk, incontri, esperimenti, workshop, formazioni e performance». Sono stati invitati oltre 120 artisti, la cui provenienza non è tanto connessa a una dimensione «politica» in fatto di geografia, quanto «fisica», orografica: una cartografia di fiumi, deserti, montagne, le cui acque e i cui margini accompagnano storie di migrazione, resistenza e convivenze.
Da Aislan Pankararu, dell’omonima popolazione indigena, alla pittrice Huguette Caland; dal collettivo della scuola e atelier del Sertão Negro, creato da Dalton Paula, al giovane Maxwell Alexandre; dalle presenze internazionali di Laure Prouvost, Otobong Nkanga, Pol Taburet, Precious Okoyomon, Wolfgang Tillmans e Song Dong ai brasiliani Gervane de Paula, Heitor dos Prazeres e Gê Viana o al collettivo Vilanismo, l’approccio teorico si rifà ai percorsi degli uccelli migratori come una metodologia per porre in luce un processo continuo di trasformazione: «Non vogliamo negare l’esistenza della violenza degli spostamenti forzati, ma rivendicare il movimento come qualcosa di più di un trauma. L’uccello migratore come metafora ci invita a reinterpretare la dislocazione come una pratica vitale, di trasmissione di conoscenza, di relazionalità, di divenire. L’erranza è sempre stata parte della vita umana. La domanda che ci siamo posti è stata come poter raccontare storie che contengano, in termini di “spostamento”, tanto il lutto quanto l’autonomia decisionale», spiega il capocuratore. A proposito di viaggi e confini, un’altra parola chiave della biennale è «estuario»: la foce a imbuto del fiume, dove l’acqua dolce si mescola con quella salata del mare, è anche una figura cardine del manifesto «Caranguejos com Cérebros» (Granchi col cervello) del movimento culturale e musicale Manguebeat, nato negli anni Novanta a Recife, mescolando cultura del Nord-Est brasiliano, come il maracatu, con il pop internazionale, il rock e l’hip-hop, raccontando di disuguaglianza sociale e problemi ambientali. E l’estuario, specialmente in Brasile, rappresenta anche l’area dove le economie più liberali (e di sfruttamento) si uniscono e si scontrano con le popolazioni: «In mostra l’estuario appare come un’atmosfera sensoriale, spaziale e politica. Non c’è una sola interpretazione, ma una molteplicità di gesti che coesistono, sfregandosi l’uno contro l’altro». Keyna Eleison rimarca: «L’estuario è un luogo di traboccamento. Alcune delle pratiche in mostra provengono da artisti che si muovono in questi flussi, tra ancestralità e urgenza del presente. L’estuario è anche un luogo di rinascita, rinnovamento e potere latente». L’allestimento, infine, realizzato dallo studio berlinese Yukiko, è caratterizzato da tinte fluo e da sinuosità, a ricordare l’iconico Pavilhão Ciccillo Matarazzo, progettato da Oscar Niemeyer: «Abbiamo lavorato a stretto contatto con il team architettonico, Tiago Guimarães e Gisele de Paula, per rispondere a queste tensioni, traendo ispirazione da letti fluviali e soglie, introducendo interventi che interrompono la circolazione lineare e permettono derive», conclude Bonaventure Soh Bejeng Ndikung.