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Da Fumagalli va in scena un dialogo sorprendente tra due grandi maestri del secondo Novecento
- Ada Masoero
- 24 novembre 2025
- 00’minuti di lettura
Jannis Kounellis, «Senza Titolo», 2003
© Estate of Jannis Kounellis. By Siae 2025
Kounellis e Warhol a Milano: due visioni della tragedia moderna
Da Fumagalli va in scena un dialogo sorprendente tra due grandi maestri del secondo Novecento
- Ada Masoero
- 24 novembre 2025
- 00’minuti di lettura
Kounellis e Warhol, insieme. Singolare accoppiata, a prima vista. Invece si può: lo prova la mostra «Kounellis|Warhol. La messa in scena della tragedia umana: la classicità di Jannis Kounellis e il pop di Andy Warhol» (dal 26 novembre al 29 maggio 2026), ideata da Annamaria Maggi per la Galleria Fumagalli, a Milano, da lei diretta con Massimo Zanello, e realizzata insieme al Museo San Fedele che, nella cripta della chiesa conserva, tra altri tesori, un’opera magnifica di Jannis Kounellis («Svelamento», 2012), cui in quest’occasione sarà accostato un lavoro di Andy Warhol.
A illuminare i punti di contatto fra due autori apparentemente così lontani, uno immerso nelle ombre e nel peso della condizione umana, l’altro sedotto (ma ne siamo certi?) dai luccichii della civiltà dei consumi sono, nella pubblicazione che accompagna la mostra, gli scritti di un drappello di studiosi e di compagni di strada dei due maestri, da Andrea Dall’Asta SJ a Demetrio Paparoni, Gianni Mercurio e Gerard Malanga, da Lóránd Hegyi a Luca Massimo Barbero, Franco Fanelli, Annamaria Maggi, Maria Vittoria Baravelli, Sandro Barbagallo e Massimo Recalcati.
Quali, dunque, le assonanze nei loro mondi in apparenza inconciliabili? Le risposte sono molteplici, si suggerisce qui: innanzitutto Jannis Kounellis (Il Pireo, Grecia, 1936-Roma, 2017) e Andy Warhol (Pittsburgh, Pa, 1928-New York, 1987), entrambi veri maestri per l’impronta e per l’eredità che hanno lasciato nell’arte del nostro tempo, sono stati entrambi portatori di istanze diverse ma egualmente radicate del mondo occidentale del dopoguerra, così com’erano declinate in due sue capitali, Roma per Kounellis, New York per Andy Warhol. Entrambi, però, portavano in sé, per effetto dei rispettivi «grembi culturali», influssi delle culture dei margini orientali dell’Europa di allora: quella greco-ortodossa e mediterranea per Kounellis che, sebbene formato e vissuto a Roma, non dimenticò le proprie radici; quella della Slovacchia (la famiglia, immigrata negli Stati Uniti, giungeva da lì), permeata d’influssi slavo-bizantini per Warhol. Quanto al loro lavoro, è vero che in Kounellis il sentimento del tragico è immediatamente percepibile, non solo per la dominanza dei colori cupi del ferro, del carbone, dei sacchi e degli indumenti logori, ma anche per la pesantezza insostenibile della materia (esemplare, a questo riguardo, l’installazione del Museo San Fedele), ma in Andy Warhol opere come i «Death&Disasters», le «Electric Chair», gli «Skull», sono espressione di un profondo senso del tragico, radicato in lui anche per ragioni personali (la sofferenza per il senso d’inadeguatezza lo accompagnò dall’infanzia fino alla fine, quand’era ormai una personalità idolatrata). E quella che pare un’adesione entusiastica agli «idola» del consumismo, in realtà è il frutto di uno sguardo critico su essi, come emerge con evidenza dai suoi scritti. Perché Warhol, al di là dell’immagine lungamente divulgata, è stato, a parere di chi scrive, uno dei più acuti (e critici) sociologi della civiltà del secondo dopoguerra, che ha indagato e sezionato non con testi accademici ma con una folgorante capacità di tradurli in immagini di universale comprensibilità.