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Michele Roda
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C’è un’immagine, tra le migliaia che punteggiano il percorso di «Intelligens», che racconta meglio di tutte il carattere della 19ma edizione della Biennale di Architettura di Venezia, visitabile fino al 23 novembre. L’elegante mappa delle Corderie dell’Arsenale sembra una miniatura, tanto sono numerose le installazioni disseminate. Occupano il solenne volume cinquecentesco fino a farlo esplodere, virtualmente, nell’impatto che produce. In alcuni punti gli oggetti in mostra rendono difficoltoso addirittura il passaggio. Ma non è un errore di progettazione allestitiva. Si tratta principalmente di una volontà espressiva. Quella curata da Carlo Ratti avrebbe dovuto essere la Biennale dell’adattamento e della sperimentazione, secondo gli annunci. Lo è, sicuramente. Tanti progetti presentati lavorano (in maniera diversa, anche contraddittoria) su questi crinali. Ma è soprattutto la Biennale dell’accumulazione, in cui sfumano selezioni, gerarchie, indirizzi e autorialità e si afferma un concetto pervasivo di che cosa sia oggi architettura.
«La mostra invita diversi tipi di intelligenza a lavorare insieme per ripensare l’ambiente costruito», aveva promesso l’architetto, torinese di origine, statunitense di adozione, professionista globale. Il risultato è conseguente: una proliferazione di materiali, colori, texture, forme, suoni, persino climi. Lo spazio dell’Arsenale sembra scomparire dietro sequenze interminabili di installazioni. Ma anche di video, modelli, pannelli, disegni, collage, grandi origami, cuscini, costruzioni, ideogrammi, sculture abitabili, robot, automi, alberi vari. Una geografia minuta, e quasi spaesante. Non meno denso, e piacevolmente caotico, è l’accostamento dei materiali: legno e pietra, metallo e vetro, tecnologia digitale e materia, installazioni a terra e volanti, pietra ed elemento vegetale, carta e plastiche. Sembra questa la forza di un programma monstre (numeri da record: oltre 100 progetti nella Mostra principale, più di 750 autori coinvolti), esito di un processo ampio di coinvolgimento (di professionisti singoli così come di enti, associazioni, istituti), ma anche di una condizione particolare: chiuso per restauro il Padiglione Centrale ai Giardini, tutto deve stare all’interno delle Corderie.
Così facendo, l’accumulazione diventa un fattore d’identità. «Intelligens» descrive perfettamente il mondo di oggi e il processo architettonico che lo plasma: complessità e accostamento, ibridazione e multidisciplinarietà. I tre sottotitoli (Natural, Artificial, Collective) corrispondono alle tre sezioni. «Naturale» (53 progetti) raccoglie sperimentazioni in cui il verde diventa infrastruttura. «Artificiale» (30 progetti) è ciò che più ti aspetti dalla biografia di Ratti: mondo digitale e connessioni. In «Collettivo» (22 progetti) affiora la dimensione politica. Ad accompagnare all’uscita c’è «Fuori» (11 progetti): racconta di ghiacci, fondali oceanici, Luna, Marte, lo spazio. Uno dei fronti della ricerca architettonica sta lì: se la Terra rischia di diventare inabitabile, serve anche guardare oltre.

Dong Gong, Vector Architects, «Revival of Ordinary Trees». Courtesy of La Biennale di Venezia. Foto Marco Zorzanello
In questa ricchezza è difficile proporre un itinerario di opere emblematiche. Sicuramente «Domino 3.0: Generated Living Structure» (Kengo Kuma, Sekisui House-Kuma Lab, The University of Tokyo; Yutaka Matsuo, Matsuo-Iwasawa Lab, The University of Tokyo; Norihiro Ejiri, Ejiri Structural Engineers; Minoru Yokoo, Kengo Kuma & Associates), una scultura-combinazione di tronchi di legno non lavorati. Tenuti insieme grazie a connessioni stampate in 3D: gli elementi della natura vengono scansionati nelle loro forme complesse, l’applicazione digitale è necessaria per un loro uso architettonico. Tecnologia che torna, anche con tutto il suo peso di contraddittorietà, in «Revolutionizing Clean Energy» (Pininfarina, newcleo, Fincantieri) addirittura un modello di reattore nucleare di nuova generazione che vuole farsi soluzione, oltre che architettura. Tra le più fotografate «Revival of Ordinary Trees» (Dong Gong, Vector Architects), grande plastico di un progetto che parte dalla salvaguardia delle piante. «Underground Climate Change» (Subsurface Opportunities and Innovations Laboratory, Northwestern University, Geoeg, Enerdrape) è una sezione in scala 1:1 che restituisce lo spessore dei terreni su cui si appoggiano le nostre città. «From Belongings to Belonging» (Elemental) è una, apparentemente disordinata, struttura-infrastruttura metallica che ospita idee per l’abitare in un luogo complicato del Cile, dove la progettazione di case è una risposta doverosa a una società drammaticamente ineguale. Nella sala conclusiva, «Re-Forming Materials» (René Rissland, Robert M. Hazen, Martina Dietrich, Sofia Pfister, Jürgen Lehmeier, Matthias Massari) è un’elegantissima scultura che ragiona sull’impressionante peso dei materiali creati dagli esseri umani nella storia. Collocati su un’esile rete, sembrano assumere leggerezza, entrando in un’altra dimensione.
Ma, con piedi ben piantati per terra, è la prima sala quella che più rappresenta lo spirito della curatela: doppio livello fisico a cui corrisponde una duplice interpretazione, percorso complesso, scenografia di impatto, messaggio di sensibilizzazione. Due installazioni combinate: «The Third Paradise Perspective» (Fondazione Pistoletto Cittadellarte) è una geografia di vasche d’acqua, «Terms and Conditions» (Transsolar, Bilge Kobas, Daniel A. Barber, Sonia Seneviratne) una fotografatissima selva di motori di condizionatori appesi. Vuole colpire attraverso i sensi, buttandoti in faccia, sotto forma di vento caldo e umido, gli effetti oscuri, come scura è la stanza, del cambiamento climatico.
«Architecture is survival, L’architettura è sopravvivenza», dice Ratti, sintesi efficace di uno sguardo che muove dal tema delle emergenze ambientali e si traduce in un minimo comune denominatore che, pur con qualche fatica, si può individuare facendo lo slalom tra proposte che costruiscono un orizzonte di attivismo e di relazioni, senza il timore di essere politica con il Manifesto «Intelligens: Verso una nuova architettura dell’adattamento». In questo scenario l’autorialità (così intensamente praticata dalla cultura architettonica) sfuma in una dimensione collettiva, emblematicamente resa nelle didascalie dei progetti dove i singoli nomi sono talmente piccoli da risultare illeggibili o quasi.

Kengo Kuma, Sekisui-Kuma Lab, The University of Tokyo, Yutaka Matsuo, Matsuo-Iwasawa Lab, The University of Tokyo, Norihiro Ejiri, Ejiri Structural Engineers, Minoru Yokoo, Kengo Kuma & Associates, «Domino 3.0: Generated Living Structure»Courtesy of La Biennale di Venezia. Photo Marco Zorzanello
Ratti trasmette l’impressione di aver portato a Venezia figure e storie, progetti e connessioni, senza farsi influenzare troppo dalle forme e dalle gerarchie consolidate. Eccola l’eco del mondo dei flussi su cui, a Boston, ha costruito la sua riconoscibilità: messo in soffitta il concetto stesso di smart city, sollecitato con estrema cura quello dell’IA, l’esito è un vivo, intenso, e anche paradossale, «Laboratory of the Future», come l’aveva battezzato la curatrice precedente, Lesley Lokko. D’altronde il percorso proposto esprime una linea coerente a quanto visto a Venezia nelle ultime edizioni: accostamenti di culture e di discipline, di esperienze e di competenze. Non è un ritorno all’ordine, come si sarebbe potuto immaginare da un curatore italiano 25 anni e 12 edizioni dopo Massimiliano Fuksas. E da un curatore progettista sette anni e tre edizioni dopo Yvonne Farrell e Shelley McNamara di Grafton Architects. Anche in questa 19ma Biennale cadono limiti e perimetri disciplinari, il mondo dell’architettura si fa carico dei problemi del nostro tempo (o almeno di molti di essi).
«Lui sente le intelligenze del mondo, ascolta il loro mormorio e gli algoritmi che costruiscono il nostro abitare», dice Pietrangelo Buttafuoco, presidente di Fondazione Biennale, spostando l’asse: «Attenzione, non c’è solo il cambiamento climatico. C’è anche l’indicibile, che è la guerra, e il suo effetto più drammatico, il domicidio. Lo vediamo in Sudan, a Gaza, in Ucraina. Vengono distrutte le città e le case perché il nemico non possa più dire: Io sono perché abito».
La doppia lettura è il filo rosso del programma. Ratti lo introduce già nell’abstract: «Un invito ad agire: per aspera ad astra, attraverso le difficoltà verso le stelle, e poi di nuovo verso la Terra». Andate e ritorni, fronti e versi, interni ed esterni. Come quello di «The Other Side of the Hill» (Beatriz Colomina, Roberto Kolter, Patricia Urquiola, Geoffrey West, Mark Wigley), una delle prime installazioni che si incontrano dopo la sala iniziale. Ha due facce: un impenetrabile muro in mattoni rossi simboleggia la crescita della popolazione mondiale. Sul retro una forma spiazzante rappresenta le comunità microbiche, possibile controbilanciamento al consumo delle risorse.
Non c’è un pianeta B (e quindi dobbiamo prenderci cura di questo) però è il caso anche di guardare in là. C’è la materia ma ci sono anche i flussi. Ci sono i condizionatori che aiutano a vivere ma c’è anche l’inquinamento che producono. C’è la struttura delle Corderie ma anche una selva di esili colonnine metalliche (alcune rivestite con elementi plastici e riciclati, allestimento dello studio berlinese Sub) per supportare i pannelli. Ci sono i testi umani a illustrare i progetti, ma anche un breve riassunto scritto dall’Intelligenza Artificiale. C’è l’inglese ma anche il latino. Ci sono le emergenze ambientali ma non in un’ottica drammatica o tragica. C’è la politica ma non l’ideologia.
È un’architettura serena, se non gioiosa perlomeno ottimistica, quella che emerge dalle Corderie dell’Arsenale nella 19ma Biennale Architettura. Un’accumulazione poco regolata che sembra voler attutire o smorzare i conflitti e le fragilità di questo mondo. Adattamento, appunto, con accumulazione.