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«Katangua Market» di Andrew Esiebo dal progetto «Alternative Urbanism: The Self-Organized Markets of Lagos» di Tosin Oshinowo (Oshinowo Studio)

Foto: Andrew Esiebo

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«Katangua Market» di Andrew Esiebo dal progetto «Alternative Urbanism: The Self-Organized Markets of Lagos» di Tosin Oshinowo (Oshinowo Studio)

Foto: Andrew Esiebo

Carlo Ratti: «Le intelligenze non artificiali della mia Biennale»

Allestita alle Corderie dell’Arsenale e in varie sedi di Venezia, la 19ma Mostra Internazionale di Architettura riunisce 300 progetti di 756 partecipanti: «Voglio una Biennale “laboratorio”, in cui formulare un pensiero nuovo» 

Alessandro Martini

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«Ne approfitto per precisare un aspetto che molti hanno frainteso. “Intelligens” non è una crasi, è participio presente di “intelligere”, che è versione tarda di “intellegere”. È la radice comune a italiano e inglese: ci permette di avere un unico titolo, ma anche di evidenziare la molteplicità di intelligenze collettive, insito nel termine “gens”». Carlo Ratti, 54 anni, architetto ingegnere con studio a Torino, la sua città, e direttore a Boston del «Senseable City Lab» dell’Mit, il prestigiosissimo Massachusetts Institute of Technology, è il curatore della 19ma Mostra Internazionale di Architettura organizzata dalla Biennale di Venezia. Intitolata «Intelligens. Natural. Artificial. Collective» (dal 10 maggio al 23 novembre), è basata su un «processo collaborativo», che ha portato alla selezione di 756 partecipanti con più di 300 progetti. La sua Biennale si svolge principalmente alle Corderie dell’Arsenale e in sedi diverse nell’intera città di Venezia. Un Venice Living Lab, che vede il coinvolgimento delle più diverse discipline, sarà la misura di una Biennale «engaged», impegnata, che intende proporre una visione di architettura intrecciata alla tecnica e alla politica, e da questa autonoma: «Alla società e agli individui, la facoltà poi di scegliere tra le proposte e le soluzioni che l’architettura deve offrire», precisa Ratti.

Che cosa deve essere una Biennale di Architettura? Il punto sull’esistente, oppure una proposta, magari radicale, di rinnovamento e trasformazione per il futuro, o altro ancora?
Le Biennali stanno cambiando, necessariamente. Il modello iniziale, proposto proprio a Venezia e poi esportato nel mondo, prevedeva di fare il punto sull’esistente. Ma tutto questo già ce l’abbiamo, e in tempo reale, attraverso altri strumenti: i social, Instagram, i giornali e i siti informativi specializzati come «Il Giornale dell’Arte». Ciò che mi pare invece interessante è fare una Biennale che diventi «laboratorio», in cui elaborare un pensiero nuovo. La visione di ciò che sarà, o potrà essere. 

La sua Biennale si annuncia infatti come un «laboratorio vivente». In che senso?
Ciò che vedremo sono persone e progetti che, partendo dal tema «Intelligens. Natural. Artificial. Collective», lo elaborano in modo nuovo. Al centro è la molteplicità dell’intelligenza che non è ciò che molti oggi sono portati a pensare, cioè l’Intelligenza Artificiale e ChatGPT... C’è moltissima intelligenza anche nella natura, ad esempio, e in quella collettiva. E tutte insieme sono impegnate a gestire le sfide di un mondo che sta cambiando. La Biennale proporrà una serie di esperimenti che vanno proprio in questa direzione. Quest’anno, poi, non essendo disponibile il Padiglione Centrale, in ristrutturazione, abbiamo utilizzato come laboratorio l’intera città di Venezia, una delle realtà più sensibili di fronte alle sfide dei nostri giorni. Ma la città più fragile può essere anche quella maggiormente capace di sviluppare, per prima, soluzioni utili per sé stessa e per altri. Venezia oggi è un po’ il mondo domani, o come potrebbe essere. 

La terza intelligenza del titolo è «Artificial». Quale rapporto vede oggi tra l’architettura e l’Intelligenza Artificiale?
L’IA avrà un impatto stravolgente sulle nostre vite e sulla professione, e non perché siano sistemi particolarmente intelligenti. Oggi molti utilizzano l’IA come un tempo facevano con i motori di ricerca: per farsi un’idea generale, e una sintesi utile all’obiettivo, in maniera più facile e più veloce. Questi sistemi sono «idiot savant», idioti che sanno tutto e che non sanno fare cose nuove, almeno per ora. Tutto questo sta avendo un grande impatto sull’architettura, anche dal punto di vista visivo. Proprio in Biennale proponiamo un progetto con il Comune di Napoli che, con il sociologo Alberto Martinelli e l’urbanista Ricky Burdett, chiede ai cittadini che cosa fare con l’unica rimasta delle «vele» di Scampia. Oggi, con l’IA, è immediato per chiunque dare forma a idee, semplicemente descrivendo il proprio immaginario. Tutti possono trasformare i propri sogni da descrizione a visione. 

Non intravede alcun rischio? 
Certo. Ma accanto a ogni rischio, diceva già il grande inventore americano Buckminster Fuller, c’è sempre una possibilità: puoi diventare un architetto del futuro o diventarne vittima. L’unica possibilità è lavorare con le tecnologie nuove, per capirne pericoli, limiti e vulnerabilità. E farsi trovare pronti. Questo è l’approccio della Biennale. Saranno presenti per la prima volta robot umanoidi che si cimenteranno nel campo della costruzione: una possibilità per il futuro, e noi vogliamo che diventino oggetto di una discussione aperta fin da oggi.

Come vede l’attuale momento storico dell’architettura?
Dall’inizio degli anni Duemila mi pare che si siano percorse molte strade, nessuna delle quali dominante, e che oggi ci troviamo in una fase un po’ «eclettica», priva di una direzione comune. Mi pare quindi ancora più importante trovare una convergenza attorno a temi significativi. Senza la capacità di fare sistema, l’architettura perde gran parte del suo ruolo e della sua forza propulsiva.

Viviamo in un mondo di alterazioni climatiche, guerre e distruzioni. Quale sarà il ruolo dell’architettura nel prossimo futuro?
Questa Biennale vuole in primo luogo far leva sulle molteplici forme di intelligenza. Ce lo mostra proprio Venezia, storicamente nata in un ambiente ostile. In secondo luogo, è importante portare su un terreno comune anche molte altre discipline. Non più, come in passate Biennali, esportando l’architettura in territori diversi dal suo ma, al contrario, facendo sì che siano le altre discipline a venire nel terreno proprio dell’architettura, pensando insieme all’ambiente costruito. In questa eterogeneità, quest’anno accanto ad architetti, designer e urbanisti ci sono scienziati, fisici, informatici, astronomi come il britannico Martin John Rees, ma anche agricoltori, esperti di cucina come Davide Oldani o di moda come Diane von Fürstenberg. Nessuno però da solo, ma sempre in team: preferibilmente mettendo a confronto un premio Nobel o Pritzker con un giovane appena uscito dall’università, in un’eterogeneità che porta con sé prospettive diverse. 

Ci fa qualche esempio?
È il caso di due progetti in mostra all’Arsenale nelle sezioni iniziali dedicate a clima e popolazione, quelle che forniscono il contesto della Biennale e che precedono le tre sezioni su intelligenza naturale, artificiale e collettiva, e l’ultima intitolata «Out», che esplora lo spazio fuori dal pianeta Terra. Il primo progetto, «Terms and Conditions», in una stanza tutta allagata, cercherà di riprodurre il clima di Venezia tra 100 anni e metterà a confronto due dei maggiori scienziati contemporanei sul clima, Sonia Seneviratne e Transsolar, insieme a Michelangelo Pistoletto. Il secondo progetto, «The Other Side of the Hill», scava a fondo nel nostro futuro demografico globale, esplorando le comunità microbiche che bilanciano il consumo di risorse. E lo fa mettendo insieme il fisico americano Geoffrey West con Roberto Kolter, grande esperto di batteri ad Harvard, e i teorici dell’architettura Beatriz Colomina e Mark Wigley. Patricia Urquiola, infine, ha trasformato questa visione in design.

Da questo punto di vista, che cosa significa che «l’abitare è anche un atto politico»?
L’abitare è naturalmente un atto politico, pensiamo a Charles Fourier e al suo Falansterio degli inizi dell’800, o addirittura all’Utopia di Tommaso Moro già nel ’500. Il sistema del costruito e il sistema sociale vanno di pari passo. Credo però che la grande differenza dal punto di vista politico stia in quegli architetti che hanno cercato di confrontarsi con la politica per implementare le loro idee. Credo che questa modalità abbia prodotto molti errori nel secolo passato. È invece importante che noi architetti sviluppiamo le nostre idee e le nostre sperimentazioni (che ovviamente hanno implicazioni politiche), ma che poi queste vengano offerte alla comunità più ampia, cosicché i cittadini possano scegliere come vivere domani. E quindi torniamo all’idea di laboratorio, centrale nella prossima Biennale...

«Palm Onto-Intelligence». Partecipanti: André Corrêa do Lago, Marcelo Rosenbaum, Fernando Serapião e Guilherme Wisnik

Alessandro Martini, 09 maggio 2025 | © Riproduzione riservata

Carlo Ratti: «Le intelligenze non artificiali della mia Biennale» | Alessandro Martini

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