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Roberta Bosco
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Manuel Borja-Villel (Burriana, 1957) è uno dei personaggi più autorevoli della scena artistica spagnola. Come direttore prima della Fundació (ora Museu) Tàpies, poi del Museu d’Art Contemporani de Barcelona (Macba) e infine del Museo Reina Sofía di Madrid, la nave ammiraglia dell’arte contemporanea spagnola, ha marcato le linee dell’evoluzione museale, lasciando un segno indelebile nella storia dell’arte degli ultimi trent’anni in Spagna. I suoi progetti espositivi, così come le sue idee (tra gli altri «Campi magnetici. Scritti di arte e politica», hopefulmonster editore), non lasciano mai indifferenti. Da circa un anno sta lavorando al Museo Habitat, uno spazio di ricerca, sperimentazione, produzione e riflessione sul museo del XXI secolo. Il progetto, che coinvolge specialisti locali e internazionali e personalità provenienti da diversi ambiti della cultura (museologi, manager, artisti, curatori, pensatori...), si è materializzato in una serie di attività, incontri, performance, interventi artistici e workshop, che hanno preparato il terreno per «Fabular paisatges», la grande mostra che si terrà dal 27 giugno al 5 ottobre in due sedi di Barcellona, il Palau Moja e il Padiglione Victoria Eugenia, l’edificio ai piedi della collina di Montjuic che accoglierà l’ampliamento del Museu Nacional d’Art de Catalunya (Mnac).
Che cosa intende esattamente per Museu Habitat?
Qualche tempo fa, il critico italiano Marco Baravalle ha proposto di abitare il museo, piuttosto che visitarlo. Il verbo abitare deriva dal latino habitare, che significa «possedere ripetutamente», fare proprio uno spazio o un territorio. Abitare è un modo di essere ed esistere nel mondo. Abitare un museo implica la sua appropriazione da parte della società, intendendolo come una zona di sperimentazione istituzionale, come uno spazio in cui si negoziano i nostri più grandi desideri e le nostre peggiori paure e in cui, così facendo, si possono inventare altri universi. Il museo abitato non è organizzato per temi, generi o stili, ma si articola attraverso le relazioni. Non possiamo immaginare un futuro partendo da una realtà ingiusta, in cui la conoscenza ci viene imposta e ci impedisce di vedere oltre i suoi limiti. È impossibile porre fine al colonialismo combattendo con i suoi strumenti e le sue verità. Il Museu Habitat si situa in uno spazio abbandonato da regole e norme, uno spazio selvaggio, non un’utopia idilliaca. Già negli anni Settanta Marcel Broodthaers sosteneva che la cultura è un campo di battaglia in territorio nemico.
La mostra «Fabular paisatges» illustra un nuovo approccio museografico incentrato sulla decolonizzazione e la restituzione, concetti che sembrano essere diventati vere e proprie parole d’ordine…
I musei operano in un contesto storico specifico. Il nostro è segnato da un’ondata neoconservatrice che si sta inesorabilmente diffondendo in tutto il pianeta. I programmi e le pubblicazioni dei centri d’arte sono farciti di termini come decolonizzazione, restituzione, ridistribuzione, diritto al rifiuto e così via. Tuttavia, questi stessi centri, a prescindere dalla buona fede dei loro gestori, dimostrano grandi difficoltà al momento di decolonizzare le proprie strutture e di generare forme alternative di organizzazione. Decolonizzare non significa semplicemente restituire. Significa riparare e guarire. La riparazione non può essere decisa da chi ha causato il danno. Sono le persone che lo hanno subito che devono decidere che cosa fare e come farlo. Non basta rinnovare il museo, dobbiamo immaginare, dalle sue rovine, altre narrazioni, meccanismi e forme di organizzazione.
Il suo discorso espositivo mette in luce i limiti delle divisioni cronologiche, degli approcci universali e della disputa tra il passato e il presente…
Di fronte alle proposte epistemologiche inedite i commenti oscillano spesso tra un rifiuto sprezzante e un interesse benintenzionato. Il dibattito tra vecchio e nuovo affonda le radici nelle celebri dispute tra antichi e moderni, caratteristiche del XVII e XVIII secolo, un periodo in cui in Europa si proclamò l’inevitabilità di un sapere scientifico, universale ed esclusivo. In quel periodo, nacquero le accademie e, in seguito, i musei, la cui missione era preservare e diffondere questo sapere, decidere che cosa fosse arte e che cosa no. Si favoriva la disputa, non l’alterità. I movimenti d’avanguardia europei, come l’Espressionismo e il Cubismo, trassero ispirazione da maschere, feticci e tessuti provenienti dall’Africa e dalle Americhe, ma ignorarono le relazioni che legavano le effigi ai rituali che davano loro significato. Molti di questi oggetti sono rimasti intrappolati nella categoria di «arte», sebbene il termine nelle lingue degli autori non esistesse nemmeno. La presenza di curatori indigeni o razzializzati aumenta e i musei accolgono con entusiasmo le opere delle comunità indigene nelle mostre, ma le loro collezioni rimangono radicate nei principi occidentali di proprietà e accumulazione.
In che cosa si differenzia dalle abituali mostre collettive?
A parte i dispositivi ormai superati, i musei enciclopedici classificano, denominano, utilizzano categorie obsolete e anacronistiche. L’epistemologia occidentale non si rende conto che la tecnologia e soprattutto l’Intelligenza Artificiale stanno cambiando il nostro approccio con tutto ciò che ci circonda molto rapidamente e profondamente. «Fabular paisatges» è una mostra contestualizzata, situata e spiegata, una proposta opposta a quella dei musei storici dove tutto ha una pretesa di universalità, ma anche ai musei d’arte contemporanea che preferiscono stabilire fantomatici rapporti con comunità lontane, mentre non lo fanno con «stranieri» che vivono nel loro quartiere. Questo non significa che ha senso solo per il visitatore locale, ma che parte da un luogo e da una determinata forma di fare. Denunciamo il razzismo ambientale, riflettiamo su chi scrive la storia e come lo fa e su come si creano i grandi miti della cultura. A differenza dei musei dove tutto sembra essere fisso e immutabile, proponiamo un cambio di paradigma, per esempio riscattando la storia orale o rifiutando le categorie, affinché creatori, teorici e ricercatori si uniscano in nuovi profili di artisti che creano epistemologie inedite. Per i pensatori decoloniali l’arte è importante perché dà corpo alla teoria.
Come si articola la mostra?
Al Palau Moja parliamo di memoria, monumento e spazio pubblico. Nel Padiglione Victoria Eugenia presentiamo interventi artistici sulle grandi esposizioni internazionali che hanno raggiunto il loro apice tra l’800 e il ’900 e sulla loro influenza sul nostro modo di comprendere il mondo. In mostra più di 80 artisti, di cui 40 contemporanei con un centinaio di opere di cui 22 sono state create ex professo.
La mostra conferma che il padiglione Vittoria Eugenia costruito per l’Esposizione Universale del 1929 da Puig i Cadafalch, in cui si amplierà il Mnac, avrebbe potuto usarsi da subito, invece, con il progetto che è stato scelto ci vorranno almeno altri 4 anni. Questa mostra può essere considerata una prefigurazione del nuovo Mnac?
Non si può parlare di prefigurazione perché avrebbe implicato lavorare nel Mnac, cosa che non ho potuto fare, ma offre elementi per ripensare una collezione e un museo e questo significa non solo ripensare i dispositivi e i contenuti ma anche l’amministrazione, la relazione con il territorio e l’analisi del ruolo del museo e delle istituzioni oggigiorno. Si parla tanto di sostenibilità, eppure i soldi continuano a essere spesi nel cemento, noi parliamo di ridistribuzione e di come si condividono i ricorsi e intanto per un ampliamento faraonico si stanziano 120 milioni che sarebbero potuti servire per collezioni, produzioni ed esposizioni.

Manuel Borja-Villel con un’opera di Cian Dayrit