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Una veduta della mostra «Sueño Perro: Instalación Celuloide de Alejandro G. Iñárritu» alla Fondazione Prada di Milano

Photo: Dsl Studio-Delfino Sisto Legnani e Melania Dalle Grave / @delfino_sl @melaniadellegrave @dsl-studio. Courtesy Fondazione Prada

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Una veduta della mostra «Sueño Perro: Instalación Celuloide de Alejandro G. Iñárritu» alla Fondazione Prada di Milano

Photo: Dsl Studio-Delfino Sisto Legnani e Melania Dalle Grave / @delfino_sl @melaniadellegrave @dsl-studio. Courtesy Fondazione Prada

Alla Fondazione Prada il «Sueño Perro» di Alejandro G. Iñárritu

La mostra, concepita come un «labirinto di luce», si configura come vivida esperienza onirica per il regista cinque volte premio Oscar

La memoria non è un deposito inerte, è un organismo vivo che muta insieme a chi la attraversa. Il cinema, quando è davvero arte, condivide questa stessa natura instabile. Alejandro González Iñárritu, regista messicano tra i più influenti del nostro tempo, ha deciso di confrontarsi con il proprio passato non attraverso la nostalgia ma attraverso una metamorfosi. Con la mostra «Sueño Perro: Instalación Celuloide», aperta alla Fondazione Prada di Milano fino al 26 febbraio 2026, riporta in vita i materiali esclusi dal montaggio di «Amores Perros» (2000), il pluripremiato film d’esordio (Premio della Critica al Festival di Cannes 2000) che lo impose alla scena mondiale. Non si tratta di una retrospettiva, né di un’operazione di restauro, ma di un atto di «resurrezione» che mette in gioco la pellicola, quella materia prima di un cinema il cui «corpo» è ormai quasi del tutto scomparso, come fa notare non senza nostalgia il regista messicano.

Nato a Città del Messico nel 1963, Iñárritu ha costruito un percorso cinematografico unico. Dopo «Amores Perros», che insieme a «21 grammi» (2003) e «Babel» (2006) costituisce la cosiddetta «Trilogia della morte», ha firmato film intensi e visionari come «Biutiful» (2010), «Birdman» (2014), «Revenant-Redivivo» (2015) e «Bardo» (2022). È stato il primo regista messicano a vincere il premio per la Migliore Regia al Festival di Cannes, con «Babel», e il primo messicano nella storia del cinema a ottenere due Oscar consecutivi per la regia con «Birdman» e «Revenant-Redivivo», come soltanto John Ford e Joseph L. Mankiewicz hanno saputo fare, rispettivamente nel 1940-41 e nel 1949-50. In totale ha vinto cinque premi Oscar, tra cui Miglior Film e Miglior Sceneggiatura. Ha realizzato inoltre il pionieristico progetto di realtà virtuale «Carne y Arena» presentato alla Fondazione Prada nel giugno del 2017 e premiato a novembre dello stesso anno con il premio Oscar speciale. Nel 2019 è stato il primo regista latinoamericano a presiedere la giuria del Festival di Cannes e oggi lavora alla postproduzione di un nuovo film prodotto da Warner Bros, «Legendary», con Tom Cruise.

Con «Amores Perros», realizzato insieme allo scrittore Guillermo Arriaga, Iñárritu rivelò nel 2000 la potenza di un cinema urbano, frammentato e violento. Ambientato in una Città del Messico attraversata da disuguaglianze, passioni e tragedie, il film intrecciava tre storie legate da un incidente d’auto e da un cane, metafora di fedeltà e tradimento. Juan Villoro, scrittore e critico messicano che collabora anche al percorso espositivo della mostra, ha ricordato: «“Amores Perros” si può collocare in un preciso momento storico. Nel canonico anno 2000 il Messico stava attraversando un raro e atteso momento di speranza: dopo 71 anni al potere, il Partido Revolucionario Institucional aveva perso le elezioni presidenziali e il Paese si preparava a scoprire una vera democrazia. Allo stesso tempo la realtà messicana si presentava come un panorama fatto di disuguaglianze, corruzione e violenza».

Una veduta della mostra «Sueño Perro: Instalación Celuloide de Alejandro G. Iñárritu» alla Fondazione Prada di Milano. Photo: Dsl Studio-Delfino Sisto Legnani e Melania Dalle Grave / @delfino_sl @melaniadellegrave @dsl-studio. Courtesy Fondazione Prada

È su questa tensione tra speranza e rovina che nacque il film che inaugurò la carriera internazionale di Iñárritu. Oggi quel titolo «ritorna», ma sotto forma d’installazione artistica. Il titolo «Sueño Perro» ribalta e riecheggia «Amores Perros»: se il film metteva in scena «amori cani», fatti di passione, abbandono e morte, l’installazione ci invita a un «sogno cane», in cui le immagini escluse venticinque anni fa riaffiorano come visioni spettrali e oniriche. Non più storie da raccontare ma frammenti da vivere fisicamente, in un labirinto di pellicola avvoltolata attorno a macchine di proiezione che svettano come antiche rovine di quella architettura effimera che è stata il cinema fino alla comparsa, e poi la conquista totale e senza ostaggi, dell’immagine digitale. «Ci sono voluti sette anni per arrivare fin qui, ha spiegato Iñárritu, durante la presentazione della mostra. È stato un lungo processo, in realtà mai pianificato: più un’esplorazione, una sperimentazione, l’emozione di scoprire che c’era qualcosa da trovare, più che un obiettivo preciso. Non c’era un traguardo chiaro, né una narrativa o un fine intellettuale, ma piuttosto la volontà di scoprire che cosa ci fosse dietro o dentro un film che ho realizzato 25 anni fa».

Il regista ha ricordato le condizioni della lavorazione di «Amores Perros»: «Feci quel film con pochissimo tempo e pochissimi soldi. Costò due milioni di dollari, all’epoca, una cifra enorme in Messico. Alla fine, filmammo 300 km di pellicola, che è tantissimo. Così tutti i miei soldi finirono lì. Il film montato dura due ore e trentasette minuti, che corrispondono a 15 km di pellicola. Normalmente in un film si usa l’1% di quello che si gira».

Oggi quelle centinaia di chilometri di pellicola, conservata per decenni nell’archivio dell’Universidad Nacional Autónoma de México, diventano il cuore di una mostra che interroga il tempo lineare e lo spinge verso paradossi interessanti. «In questi anni, continua l’autore, passando in rassegna tutta quella pellicola, ho iniziato a guardarla con occhi e interessi molto diversi. Quando stavo montando il film, cercavo pezzi precisi del puzzle da mettere al servizio di una narrazione, di una storia. Ma adesso ho semplicemente osservato il materiale scorrere liberamente, senza alcuna narrazione collegata. E sono rimasto molto attratto da cose che allora non vedevo e che ora apprezzo moltissimo: lunghi momenti, situazioni, racconti, sequenze che non sono mai entrati nel film, attimi che non ce l’hanno fatta».

Per spiegare il rapporto tra il film e questa installazione, Iñárritu usa un’immagine concreta e potente: «Quando nasce un bambino, nella stanza resta la placenta. C’è dentro moltissima ricchezza, sostanza, vita. Non è il bambino, certo, ma è da quella placenta che il bambino è venuto al mondo, con il suo Dna, la sua ricchezza, le sue proteine. Sono andato a recuperare e a mettere insieme quei frammenti che non sono mai entrati nel film, ma che avrebbero potuto esserci. È come un materiale fantasma, questo è stato l’esperimento che volevo fare».

Uno still dal video «Amores Perros», 2000, di Alejandro G. Iñárritu. Courtesy Rodrigo Prieto. © Alta Vista Films

La Fondazione Prada non è nuova a collaborazioni con Iñárritu e nel 2019 aveva dedicato una retrospettiva alla «Trilogia della morte». Questo è il terzo capitolo di un dialogo che lega la fondazione al percorso del regista. In «Sueño Perro» la materialità chiassosa della pellicola che si avvinghia alle macchine, le inondazioni di luce che scolpiscono l’oscurità abitata da vapore acqueo e il potere del suono della città creano un ambiente unico: «Volevo creare un’esperienza molto sensoriale e fisica. Amo esplorare, in questo tipo di spazi, la possibilità della fisicità, far vivere le immagini con tutto il corpo, con il movimento, e permettere che ognuno costruisca la propria narrazione passeggiando tra le sale. Non c’è un ordine, non c’è giusto o sbagliato».

Questa installazione, che sarà ospitata in altre importanti istituzioni internazionali tra le quali LagoAlgo a Città del Messico (da ottobre a gennaio 2026) e al Los Angeles County Museum of Art (Lacma) nella primavera del 2026, è come il canto del cigno del cinema in 35mm, un omaggio commosso da parte di Iñárritu, che così dichiara il suo amore per esso: «Non possiamo sottovalutare la potenza del 35mm. Penso che, l’epoca in cui viviamo, dove tutto è digitale e fatto di pixel, abbia in un certo senso disumanizzato il nostro modo di vedere le cose, perché non vediamo più la realtà così com’è, ma come i pixel ce la restituiscono. Il 35mm è molto più vicino alla vita vera: le pellicole e i proiettori sono più vicini al nostro modo di percepirla. Credo che, per le nuove generazioni, vedere queste macchine straordinarie proiettare la luce, vedere il cinema come fu fin dalle sue origini, poter toccare questa placenta viva, sarà un incontro importante e farà scoprire loro quanto sia incredibilmente bello tutto ciò. Vorrei che le persone provassero con il corpo, con la loro fisicità, questa esperienza».

La mostra, concepita come un «labirinto di luce», si configura come vivida esperienza onirica per il suo autore: «Penso che l’esperienza sarà diversa per chi conosce il film e per chi non lo ha mai visto. Per me, anche conoscendo molto bene il film, rivedere queste immagini e questi materiali è stato come sognare. Perché è come quando sogni persone che conosci, ma non sono nel posto giusto, o non sono come le ricordi. È qualcosa di molto familiare, ma che non avevi mai visto prima».

Anche il suono è protagonista: «È quello recuperato da Città del Messico di molti anni fa. Molti suoni evocano situazioni che ho voluto mettere in contrapposizione per creare specifiche sensazioni».

Pablo O. Monasterio, «Viaje gratis», 1998

Con «Sueño Perro», Iñárritu non celebra semplicemente quel suo passato, così significativo per lui stesso e per un’intera generazione, ma lo reinventa dimostrando che il cinema, volendo, non è mai concluso e che ogni immagine contiene in sé possibilità future. Quest’installazione sarebbe piaciuta al grande regista russo Andréi Tarkovski nella misura in cui è una «scultura del tempo», sia in senso fisico sia estetico, perché come spiega Inarritu: «Ho selezionato le scene poi le ho proposte nei lori diversi ciak, e ho lasciato i ciak visibili, non ho tagliato o ritoccato nulla: è puro girato. Questa è biancheria sporca, non l’avrei mai mostrata nella mia vita. Non c’è correzione del colore, il materiale è così com’è, grezzo, con tutte le scene ripetute più volte e un poco diverse, come dei dejà vu. Ci sono differenze minime, ma è questa la loro bellezza».

A 25 anni di distanza dal suo primo passo dentro una carriera che non è ancora terminata, e che presto ci mostrerà altri capitoli sorprendenti, il regista messicano affronta il tempo che passa: «Invecchiando, mi sono reso conto che la vita è composta di cicli, che ci sono degli eventi che ritornano e che rivisito con sempre maggior distacco. Mi allontano dalla loro realtà oggettiva e li frequento nello spazio intermedio del sogno, il che li rende un’esperienza unica. Non mi interessa la realtà oggettiva, mi interessa la verità in cose che non sono necessariamente vere. Ho realizzato questo film venticinque anni fa, e non mi interesserebbe rifarlo oggi. Non esiste più l’uomo che ha fatto quel film, quello che mi interessa è continuare a esplorare linguaggi cinematografici nuovi e diversi, come quello che ho messo in opera in “Sueño Perro”. In Messico siamo famosi per i murales: ecco, per me questa installazione di 50 minuti è come una successione di murales. Non amo il Minimalismo o l’Astrattismo: mi piace il massimalismo. Noi messicani siamo gente concreta, ci piace la guacamole, le spezie, cose forti. Mio padre era incline a rivisitare il passato, a me non piace farlo, neanche sul piano cinematografico. Ci sono registi che tornano a rimontare i propri film, a me il Director’s cut non interessa. Voglio vivere nel presente, oppure se devo andare a rivisitare il passato voglio farlo alla luce del presente, per valutare se ci sia la possibilità di creare qualcosa di nuovo. Abbandonarsi al passato è pericoloso, perché può farci annegare, assorbirci e diventare spettrale».

Così il regista cinque volte premio Oscar che ha saputo rinnovare il linguaggio del cinema mondiale ci invita oggi a un’esperienza radicale di immersione nella placenta di un film che è anche quella di un’intera arte, la settima, che sta mutando pelle, corpo e forse anima... «Sueño Perro» non è soltanto un omaggio, non è soprattutto un anniversario, ma crea un «dispositivo espositivo» volto a riattivare il corpo antico e forse stanco di un cinema che ha avuto una storia gloriosa e che nessuna piattaforma o schermo di computer potranno cancellare. Almeno, così speriamo.

Alejandro G. Iñárritu. Photo: Marta Marinotti

Nicola Davide Angerame, 24 settembre 2025 | © Riproduzione riservata

Alla Fondazione Prada il «Sueño Perro» di Alejandro G. Iñárritu | Nicola Davide Angerame

Alla Fondazione Prada il «Sueño Perro» di Alejandro G. Iñárritu | Nicola Davide Angerame