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Maurita Cardone
Leggi i suoi articoliDopo una pausa di sette anni, torna Site Santa Fe International. Fondata nel 1995 come Site Santa Fe Biennial, all’epoca unica biennale d’arte contemporanea a livello comunitario negli Stati Uniti e una delle poche al mondo, la mostra torna con un approccio rinnovato. Questa 12ma edizione si svolge dal 27 giugno al 13 gennaio 2026 e, per la prima volta, oltre agli spazi di Site che storicamente hanno ospitato l’evento, coinvolge l’intera capitale del New Mexico, creando narrazioni diffuse tra una dozzina di diverse sedi che mettono in dialogo l’arte contemporanea con i luoghi di questa terra dalla storia complessa. A curarla è Cecilia Alemani (Milano, 1977), a conferma del legame di questa biennale con quella di Venezia, che Alemani ha diretto nel 2022 e alla cui ultima edizione Site Santa Fe ha partecipato alla realizzazione del Padiglione degli Stati Uniti. Il titolo scelto dalla curatrice, «Once Within a Time», svela l’intreccio di storie e piani temporali di cui la mostra è composta.
Che cosa significa il titolo?
L’ho preso a prestito dal regista Godfrey Reggio, che forse i lettori italiani conoscono per una famosa trilogia degli anni ’80-90, con dialoghi quasi assenti e immagini accompagnate da musiche di Philip Glass. Ho scoperto che Reggio vive a Santa Fe e questo mi è sembrato un legame interessante. Ma, soprattutto, mi ha ispirato un suo recente film, «Once Within a Time», girato in studio con bambini come protagonisti in un mondo surreale che si scontra con l’evoluzione dell’umanità e la tecnologia. Il film ha una struttura circolare che risuonava con la mia idea di fare una mostra sullo storytelling. Il titolo gioca con l’incipit delle favole, «Once upon a time», e suggerisce che siamo parte di queste storie che si accavallano continuamente.
Perché la mostra ruota intorno a personaggi legati alla storia e all’attualità di quella zona degli Stati Uniti?
Invece di arrivare con una mia grande idea curatoriale, ho deciso di partire dal terreno culturale, sociale e politico locale. Ho sempre sognato di fare una mostra sulla vita di una persona, come un romanzo fatto con le opere d’arte. Ma ho trovato molte persone interessanti e ne ho scelte 27. Le chiamiamo figure di interesse o personaggi e sono sia reali sia immaginarie, passate e presenti. Sono persone legate a Santa Fe e al New Mexico, ma non tutte famose. Parlando di queste zone si pensa subito a Georgia O’Keeffe, che è stata importantissima nel panorama culturale del New Mexico, ma ci sono tanti altri artisti e anche persone comuni, come un autista o il guardiano di una mostra. Volevo dare voce a chi non è stato incluso nella storia di questa regione e dare spazio a un lato più umano e individuale. In mostra, oltre alle opere d’arte, si vedranno oggetti e didascalie che raccontano le loro storie e abbiamo commissionato a scrittori locali brani di scrittura creativa su queste vite. Queste figure creano un’atmosfera e ispirano la «temperatura» della mostra che non ha un tema unico, ma è il risultato di tante tematiche che emergono dalle loro storie.
Può farci qualche esempio?
Francis Schlatter era un uomo che nell’800 si trasferì dall’Europa al South West ed era un guaritore che andava in giro con un bastone di ottone, oggi conservato in un museo locale e che abbiamo incluso nella mostra. Questo personaggio introduce l’idea che questa è una terra da sempre considerata magica e spirituale, una terra che cura, dove, per esempio, si veniva a respirare aria buona in tempi di tubercolosi. All’interno dello stesso capitolo c’è un’altra faccia di questo tema, ossia la storia di Lilli Hornig, una scienziata che lavorava a Los Alamos. Il New Mexico è infatti anche il luogo della prima esplosione nucleare. Qui guardiamo all’energia non in maniera spirituale bensì in modo pragmatico, pensando a che cosa significa oggi parlare di nucleare.

Still dal film «Once Within a Time», 2022, scritto e diretto da Godfrey Reggio, codiretto da Jon Kane con musiche di Philip Glass. Courtesy of Oscilloscope Laboratories
Ha tratto ispirazione anche da un poeta nativo americano. La presenza della cultura indigena è molto forte in queste zone. Era importante per lei che emergesse in questa mostra?
Il New Mexico è in gran parte terra nativa e ci sono molte riserve, quindi è importante dar voce alla cultura nativa. Di recente si parla molto di indigenità, ma qui è molto reale, questa è una terra complessa, dove si confrontano le culture bianca, latina e indigena. C’è uno scrittore nativo, Scott Momaday, morto l’anno scorso dopo aver vissuto a lungo a Santa Fe, che in una sua poesia introduce il concetto della «ruota del raccontare», che ci ricorda che in molte culture, soprattutto in quella indigena, la cultura orale è ciclica e si rinnova di generazione in generazione. Le narrazioni si ripetono nella grande ruota delle storie.
È una mostra con un forte «sense of place». Qual è l’unicità di questi luoghi rispetto al resto degli Stati Uniti?
Volevo fare una mostra che si potesse vedere solo a Santa Fe, in cui la connessione tra luoghi e artisti è fondamentale. La mostra si svolge a Site, che promuove la Biennale, uno spazio bello ma non grande. Quindi abbiamo coinvolto altre sedi per espandere la mostra in modo rizomatico nella città, anche perché Santa Fe è piccola e quasi tutto è visitabile a piedi. Non è un’idea nuova, ma qui non era mai stato fatto. Sul territorio ci sono istituzioni incredibili che volevo coinvolgere, perché Santa Fe è una destinazione culturale fin dall’800. Allo stesso tempo, spesso non c’è molta relazione tra chi va a vedere arte contemporanea a Site e chi visita l’History Museum o il Folk Art Museum. Quindi l’idea era: l’arte contemporanea può aiutare a rivisitare questi luoghi e creare connessioni? Abbiamo anche usato posti come un hotel, un negozio di cannabis, una vecchia fabbrica. L’idea è di usare la mostra per raccontare la città e mostrarla con occhi diversi.
Ha scelto artisti che avevano già qualche legame con i luoghi?
Nella lista abbiamo incluso anche le figure di interesse perché ne esponiamo alcuni oggetti, ma gli artisti visivi sono circa una settantina, un terzo con legami con il New Mexico, un terzo americani, un terzo del resto del mondo. È stato bello lavorare con artisti anche non locali per rispondere a spazi specifici dalla prospettiva dell’outsider che lavora, per esempio, con la collezione di un museo. Mi interessava far dialogare artisti internazionali con le figure di interesse, le collezioni e l’architettura locali. Ci sono molte commissioni e lavori nuovi, ma anche una decina di artisti morti, tutti però con una connessione specifica con Santa Fe. Ad esempio, John McCracken può sembrare strano in questa lista, ma ha vissuto molti anni a Santa Fe e aveva un interesse per gli Ufo e gli alieni, e Roswell, dov’è stato avvistato il primo alieno, è proprio qui vicino. Una sezione della mostra al Military Museum racconta di artisti che immaginano portali verso altre dimensioni e relazioni con entità differenti. L’inclusione degli artisti morti è mirata e ha sempre un riferimento con Santa Fe o il New Mexico.

Una veduta della sede principale di Site Santa Fe International. Photo: Brad Trone, 2025
Nella mostra sembra esserci una continua dinamica tra presente e passato. È anche questo un aspetto che è stata ispirato dai luoghi?
Per un curatore può essere complicato lavorare in uno spazio così lontano, dove non vive, e quindi ho cercato una connessione, un dialogo con i luoghi. La sento anche come una mia responsabilità come curatrice: non è l’unico approccio possibile, ma a me interessano i luoghi, mi piace sempre imparare qualcosa di nuovo sugli artisti e sul luogo. E questo posto ha affascinato artisti e scrittori per anni. Ad esempio, se vengo a sapere che D.H. Lawrence è stato a Santa Fe nel 1925 o che Nabokov negli anni ’40 mentre scriveva Lolita, era venuto qui a caccia di farfalle, ne voglio sapere di più: sono cose che stimolano il mio intelletto e che possono stimolare anche gli artisti. È un processo complesso, perché non c’è una sola storia in questa regione, ma molte che si accavallano. È un posto dove la storia è molto viva, non è solo passata, ma è ancora irrisolta e in divenire.
Rispetto alla curatela di una grande e consolidata biennale com’è quella di Venezia, quanto e com’è stato diverso curare una biennale più piccola e periferica?
Ho cambiato marcia e invece di pensare a una grande mostra il cui obiettivo, fra molti altri, fosse quello di fornire un’istantanea dell’arte contemporanea globale, mi sono focalizzata su una mostra che includesse arte internazionale, ma con radici nel locale. Ho voluto fare una mostra che portasse talenti da tutto il mondo in dialogo con artisti locali e con la storia di questo luogo. L’incrocio di artisti, luoghi e storie locali che emerge dalla mostra poteva succedere solo qui. Ci sono state tante sinergie tra questa istituzione e la Biennale di Venezia, con quattro curatori, me compresa, che hanno curato entrambe: Francesco Bonami, Rosa Martínez, Robert Storr.
Che ricaduta ha un evento del genere sul territorio e sulla sua comunità artistica?
Spero avrà una ricaduta importante, in particolare per questa edizione che si allarga in istituzioni locali, musei, fondazioni e spazi meno consueti. Santa Fe ha una comunità artistica molto attiva: già all’inizio ’900 e poi nel dopoguerra molti artisti si sono trasferiti qui, come i già citati D.H. Lawrence e Georgia O’Keeffe, ma poi anche Agnes Martin, Bruce Nauman, Lynda Benglis. Oggi artisti e artiste come Rose B. Simpson e Cannupa Hanska Luger vivono a Santa Fe e il loro lavoro è presentato in mostre in tutto il mondo. C’è una comunità locale interessata alla cultura e all’arte, e spero che questa mostra porti visitatori che magari non sono esperti di arte contemporanea in luoghi inconsueti. Spero che sia l’occasione per la comunità locale di vedere la propria città attraverso gli occhi di artisti contemporanei e, per i visitatori che vengono da fuori, di scoprire Santa Fe e le tante storie che hanno radici qui.
Che cosa pensa del «fenomeno» biennali, ormai diffuse in tutto il mondo? Quale la loro utilità e come sono cambiate negli anni?
Sono laboratori di idee dove si conoscono artisti nuovi. Servono per mostrare e per imparare, traducendo il lavoro degli artisti per il pubblico. In America è interessante come alcune importanti mostre cerchino di decentralizzare la produzione artistica. L’America è molto East e West Coast, ma biennali come quella di New Orleans o Counterpublic a St. Louis si specializzano in arte che non si vede nelle grandi capitali. Le biennali introducono correnti e voci che altrimenti non si vedrebbero nei posti più commerciali. Site Santa Fe è nato nella prima ondata delle biennali degli anni ’90 con la globalizzazione. Voleva diventare come la Biennale di Venezia, ma è nato prima dell’istituzione stessa. La biennale è stata il motivo per cui Site è diventato un «mini-museo». Le mostre hanno il potere di creare un ecosistema culturale importante, e Site è un buon esempio di come ha cambiato il panorama culturale di Santa Fe.

Cecilia Alemani. Courtesy The High Line. Photo: Liz Lignon