Verifica le date inserite: la data di inizio deve precedere quella di fine
Anna Aglietta
Leggi i suoi articoliSino al primo febbraio 2026, Photo Elysée, il museo di Losanna dedicato alla fotografia, accoglie nei propri spazi «Gen Z: Un nuovo sguardo». Come suggerisce il titolo, la mostra, curata da Julie Dayer, Nathalie Herschdorfer e Hannah Pröbsting, si propone di offrire una nuova prospettiva sulle esperienze della Generazione Z (i giovani nati tra il 1995 e il 2010, anno più anno meno). L’idea della mostra non è nuova: dal 2005, ogni cinque anni Photo Elysée invita nelle proprie sale le nuove generazioni di fotografi. La novità di quest’anno è che le curatrici non si sono fatte limitare, nella ricerca degli artisti da esporre, da un tema specifico: al contrario, racconta Julie Dayer, «solo dopo aver studiato circa mille artisti e fatto una prima selezione di 150 progetti, abbiamo identificato quattro temi comuni, tutti legati al macrotema del senso di identità e appartenenza, di belonging». Sono così gli stessi giovani fotografi ad aver scelto il filo conduttore che lega la mostra.
I quattro temi guidano il percorso espositivo. Arrivando al museo, frutto di un intervento di rigenerazione urbana che ha trasformato un parcheggio di treni in una piazza dedicata all’arte e alla cultura (all’interno si trovano anche il museo del Design, mudac, e delle belle arti, Mcba), si trova un percorso diviso in quattro sale. Ognuna è dedicata a raccontare una sfaccettatura di una generazione che, più di tante altre, è obbligata a ritagliarsi un posto in un mondo in continua evoluzione. Sulle pareti le spiegazioni scarseggiano: si trovano, invece, citazioni dei 66 artisti che partecipano alla mostra, dando loro la possibilità di esprimersi direttamente, senza intermediari.
A ricevere il pubblico è una sala rosa pastello, un colore evocativo dei soggetti di «Cartografia di un’appartenenza», che esplora il ruolo della casa e della famiglia come rifugio e fonte di tensione. Molti dei progetti in sala raccontano dell’esperienza familiare e dell’impatto negativo sulla salute mentale di traumi vissuti in quello che dovrebbe essere uno spazio sicuro e di accettazione. Francesca Hummler (1997), ad esempio, ricorre a una casa delle bambole per legittimare il ruolo della sorella di colore adottata da una famiglia bianca, mentre Tianyu Wang (1997) costruisce e decostruisce le immagini per fare luce sulle varie forme di violenza che accadono nell’intimo della casa. Altre serie si concentrano invece sulle vulnerabilità dei modelli abitativi contemporanei: dal senso di alienazione di chi vive isolato, in condomini e centri urbani (Suwa Shin, 2000), alla vulnerabilità di chi sceglie di vivere in coabitazione o rischia lo sfratto a causa dei costi crescenti della vita (Nur Aishah Kenton, 1998).
Nella seconda sezione, «Realtà mutevoli», si abbandona il comfort (per quanto ingannevole) della casa, a favore dell’instabilità e del rischio. Pareti blu scuro accolgono fotografie che ci ricordano tutti i rischi con cui si deve confrontare la nostra società. Ne fanno parte il cambiamento climatico e il ruolo dell’uomo nell’ecosistema terrestre (grazie, tra le altre, alle immagini di Alice Pallot, 1995, e dell’italiana Claudia Fuggetti, 1993), come anche i conflitti, le lotte e le guerre che impattano molti dei giovani d’oggi: Daniel Obasi (1993) denuncia la violenza del Lagos, mentre Thaddé Comar (1993) documenta l’evoluzione delle manifestazioni e delle proteste in società basate sul controllo della popolazione tramite nuove tecnologie quali il riconoscimento facciale.
In «Oltre lo specchio», i giovani puntano l’obiettivo su sé stessi, documentando il proprio vissuto interiore e utilizzando la fotografia come strumento di terapia. Lo spettatore è accolto da una sala fucsia brillante e da un autoritratto, deformato da graffiti, dell’artista trans e non binario Mahalia Tate Giotto (1992), che con la macchina fotografica si riappropria del proprio corpo in trasformazione. Similmente, Ziyu Wang (1998) tenta, attraverso ritratti di gruppo e autoritratti, di fare i conti con il ruolo del corpo nella definizione di mascolinità e Isabella Madrid (1999) questiona l’ideale, impossibile da raggiungere, di femminilità imposto alle donne colombiane.
Tutti questi temi trovano un’apoteosi nella quarta e ultima sezione, «Moltiplicare lo sguardo»: muri azzurri ospitano progetti che mettono in discussione i discorsi predominanti nella nostra società, dando la parola a coloro che non l’hanno mai avuta. Farren Van Wyk (1993), olandese e sudafricana, riprende il controllo su una narrazione che la vede al contempo come oppressore e oppressa; Daveed Baptiste (1997) celebra la ricchezza della cultura haitiana ricreando le case degli immigrati a Miami; e, unica nella mostra a utilizzare l’intelligenza artificiale, Salomé Gomis-Tresize (1999) celebra la propria blackness, creando immagini di persone di colore forti ed emancipate che contestano i pregiudizi e il razzismo implicito alle nuove tecnologie.
A chiudere la visita, una coccola: Gabriela Marciniak, classe 1996, ci invita a ripensare al ritmo frenetico delle nostre vite, a rallentare, con un video in cui vivere il sogno della pensione.
Isabella Madrid, «Self Portrait with Horse», 2024, dalla serie «Buena Bonita y Barata»
Daniel Obasi, dalla serie «Beautiful Resistance», 2022