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Ziyu Wang, «Lads», 2022, dalla serie «Go Get’Em Boy»

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Ziyu Wang, «Lads», 2022, dalla serie «Go Get’Em Boy»

A Losanna la Generazione Z si mostra senza filtri

Al Photo Elysée la nuova generazione di 66 fotografi ci racconta il mondo attraverso l’obiettivo

Sino al primo febbraio 2026, Photo Elysée, il museo di Losanna dedicato alla fotografia, accoglie nei propri spazi «Gen Z: Un nuovo sguardo». Come suggerisce il titolo, la mostra, curata da Julie Dayer, Nathalie Herschdorfer e Hannah Pröbsting, si propone di offrire una nuova prospettiva sulle esperienze della Generazione Z (i giovani nati tra il 1995 e il 2010, anno più anno meno). L’idea della mostra non è nuova: dal 2005, ogni cinque anni Photo Elysée invita nelle proprie sale le nuove generazioni di fotografi. La novità di quest’anno è che le curatrici non si sono fatte limitare, nella ricerca degli artisti da esporre, da un tema specifico: al contrario, racconta Julie Dayer, «solo dopo aver studiato circa mille artisti e fatto una prima selezione di 150 progetti, abbiamo identificato quattro temi comuni, tutti legati al macrotema del senso di identità e appartenenza, di belonging». Sono così gli stessi giovani fotografi ad aver scelto il filo conduttore che lega la mostra.

I quattro temi guidano il percorso espositivo. Arrivando al museo, frutto di un intervento di rigenerazione urbana che ha trasformato un parcheggio di treni in una piazza dedicata all’arte e alla cultura (all’interno si trovano anche il museo del Design, mudac, e delle belle arti, Mcba), si trova un percorso diviso in quattro sale. Ognuna è dedicata a raccontare una sfaccettatura di una generazione che, più di tante altre, è obbligata a ritagliarsi un posto in un mondo in continua evoluzione. Sulle pareti le spiegazioni scarseggiano: si trovano, invece, citazioni dei 66 artisti che partecipano alla mostra, dando loro la possibilità di esprimersi direttamente, senza intermediari.

A ricevere il pubblico è una sala rosa pastello, un colore evocativo dei soggetti di «Cartografia di un’appartenenza», che esplora il ruolo della casa e della famiglia come rifugio e fonte di tensione. Molti dei progetti in sala raccontano dell’esperienza familiare e dell’impatto negativo sulla salute mentale di traumi vissuti in quello che dovrebbe essere uno spazio sicuro e di accettazione. Francesca Hummler (1997), ad esempio, ricorre a una casa delle bambole per legittimare il ruolo della sorella di colore adottata da una famiglia bianca, mentre Tianyu Wang (1997) costruisce e decostruisce le immagini per fare luce sulle varie forme di violenza che accadono nell’intimo della casa. Altre serie si concentrano invece sulle vulnerabilità dei modelli abitativi contemporanei: dal senso di alienazione di chi vive isolato, in condomini e centri urbani (Suwa Shin, 2000), alla vulnerabilità di chi sceglie di vivere in coabitazione o rischia lo sfratto a causa dei costi crescenti della vita (Nur Aishah Kenton, 1998).

Nella seconda sezione, «Realtà mutevoli», si abbandona il comfort (per quanto ingannevole) della casa, a favore dell’instabilità e del rischio. Pareti blu scuro accolgono fotografie che ci ricordano tutti i rischi con cui si deve confrontare la nostra società. Ne fanno parte il cambiamento climatico e il ruolo dell’uomo nell’ecosistema terrestre (grazie, tra le altre, alle immagini di Alice Pallot, 1995, e dell’italiana Claudia Fuggetti, 1993), come anche i conflitti, le lotte e le guerre che impattano molti dei giovani d’oggi: Daniel Obasi (1993) denuncia la violenza del Lagos, mentre Thaddé Comar (1993) documenta l’evoluzione delle manifestazioni e delle proteste in società basate sul controllo della popolazione tramite nuove tecnologie quali il riconoscimento facciale.

In «Oltre lo specchio», i giovani puntano l’obiettivo su sé stessi, documentando il proprio vissuto interiore e utilizzando la fotografia come strumento di terapia. Lo spettatore è accolto da una sala fucsia brillante e da un autoritratto, deformato da graffiti, dell’artista trans e non binario Mahalia Tate Giotto (1992), che con la macchina fotografica si riappropria del proprio corpo in trasformazione. Similmente, Ziyu Wang (1998) tenta, attraverso ritratti di gruppo e autoritratti, di fare i conti con il ruolo del corpo nella definizione di mascolinità e Isabella Madrid (1999) questiona l’ideale, impossibile da raggiungere, di femminilità imposto alle donne colombiane.

Tutti questi temi trovano un’apoteosi nella quarta e ultima sezione, «Moltiplicare lo sguardo»: muri azzurri ospitano progetti che mettono in discussione i discorsi predominanti nella nostra società, dando la parola a coloro che non l’hanno mai avuta. Farren Van Wyk (1993), olandese e sudafricana, riprende il controllo su una narrazione che la vede al contempo come oppressore e oppressa; Daveed Baptiste (1997) celebra la ricchezza della cultura haitiana ricreando le case degli immigrati a Miami; e, unica nella mostra a utilizzare l’intelligenza artificiale, Salomé Gomis-Tresize (1999) celebra la propria blackness, creando immagini di persone di colore forti ed emancipate che contestano i pregiudizi e il razzismo implicito alle nuove tecnologie.

A chiudere la visita, una coccola: Gabriela Marciniak, classe 1996, ci invita a ripensare al ritmo frenetico delle nostre vite, a rallentare, con un video in cui vivere il sogno della pensione.

Isabella Madrid, «Self Portrait with Horse», 2024, dalla serie «Buena Bonita y Barata»

Daniel Obasi, dalla serie «Beautiful Resistance», 2022

Anna Aglietta, 30 ottobre 2025 | © Riproduzione riservata

A Losanna la Generazione Z si mostra senza filtri | Anna Aglietta

A Losanna la Generazione Z si mostra senza filtri | Anna Aglietta