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Stefano della Bella, «Dedalo e Icaro», collezione privata

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Stefano della Bella, «Dedalo e Icaro», collezione privata

A Bergamo la tecnica della pittura su pietra tra Cinque e Seicento

All’interno del progetto «Arte e Natura», all’Accademia Carrara sono esposti una sessantina di lavori, alcuni inediti o mai esposti prima, per ricostruire una tendenza che si sviluppò in alcune delle nostre capitali artistiche

Natura e artificio s’intrecciano strettamente, e suggestivamente, nella pittura su pietra, quella pratica fortunata che tra il XVI e il XVII secolo, su impulso di Sebastiano del Piombo (Venezia, 1485-Roma 1547), fiorì per circa un secolo in alcune delle nostre capitali artistiche. È questo il tema della mostra «Arte e Natura. Pittura su pietra tra Cinque e Seicento», presentata dal 10 ottobre al 6 gennaio 2026 dall’Accademia Carrara all’interno del progetto «Arte e Natura», insieme a «A&N Kids» (stesse date) e in contemporanea con progetto «Paolo Chiasera. Orti Tintori» (dal 5 settembre al 6 gennaio 2026), a cura della direttrice della Carrara, Maria Luisa Pacelli, e di Elena Volpato

La rassegna appassionante dedicata alla pittura su pietra, curata in collaborazione con Maria Luisa Pacelli da Patrizia Cavazzini (che nel 2022 aveva firmato alla Galleria Borghese di Roma, con la direttrice Francesca Cappelletti, la magnifica mostra «Meraviglia senza tempo. Pittura su pietra a Roma tra Cinquecento e Seicento»), esplora la singolare congiuntura artistica che, sin dagli anni turbolenti delle guerre tra Francia e Impero, vide prorompere la fortuna di questa tecnica prima nella Roma papale poi nella Firenze medicea e a Genova e Verona (nelle cui vicinanze si aprivano numerose cave di «pietra di paragone», la pietra usata per testare i metalli preziosi, che offriva al pennello dei pittori una suggestiva superficie nera e lustra), tramontando, salvo rare eccezioni, nel Seicento. Alla pittura su pietra si dedicarono tra gli altri Paolo Veronese, Jacopo Bassano, Palma il Giovane, l’Orbetto, Antonio Tempesta, Orazio Gentileschi e Salvator Rosa, tutti presenti in mostra grazie ai prestiti di importanti collezioni pubbliche e private, cui si aggiungono alcune opere, ora restaurate, dai depositi della Carrara: complessivamente, una sessantina di lavori, alcuni inediti o mai esposti prima (come l’impressionante «Faro di Alessandria» dell’Opificio delle Pietre Dure), divisi in tre sezioni fondate sui diversi materiali di supporto (pietre scure; pietre venate; oggetti di lusso), in una scansione che, a grandi linee, segue anche una successione cronologica: «Fino agli anni ’80-90 del Cinquecento, ci spiega Patrizia Cavazzini, è difficile imbattersi in pittura su pietre colorate, come la “paesina” (un fango solidificato che si trova soprattutto in Valdarno, Ndr), con i suoi giochi illusionistici che simulano montagne, rocce, grotte, suscitando la partecipazione dell’osservatore, affascinato da queste immagini enigmatiche “dipinte” dalla natura. Così accade anche nella pietra alberese della “Morte di Adone” di Antonio Tempesta, dalla Galleria Sabauda di Torino, su cui si vedono alberi e rami che paiono dipinti ma che sono in realtà inclusioni di manganese. Più tardi si sarebbe puntato invece sul pregio del materiale lapideo, inserito in cornici e oggetti di lusso e il controllo su questi oggetti sarebbe passato dal pittore all’argentiere o ad altri artefici». Rispetto alla mostra romana, chiarisce la curatrice, «quella di Bergamo punta sui materiali più che sui soggetti, tanto che esponiamo anche una “litoteca” (raccolta di minerali preziosi, Ndr) romana del 1763 dei Musei di Ferrara e una litoteca dipinta, con tutti i marmi utilizzati a Roma in architettura e pittura». 

Resta una curiosità: Sebastiano del Piombo riscoprì la pittura su pietra, ma quali sono le ragioni storiche che ne propiziarono la fortuna e poi ne causarono il tramonto? «Sebastiano del Piombo era un veneziano che si trovava a Roma: non era esperto nell’affresco ma era un grande sperimentatore. Cercava una gamma diversa di colori e scoprì questa tecnica che subito destò grande eccitazione nella cerchia di Clemente VII. La scoprì prima del Sacco di Roma ma quell’evento mise in luce la fragilità della pittura al confronto della scultura: di qui in poi si giocò lungamente sull’equivoco della perennità della pittura su pietra scura, che è in realtà molto fragile, fessurandosi facilmente. Il mito perciò decadde: non solo l’ardesia fu sostituita dalla “paesina” ma diventarono disponibili sottili lastre di rame, materiale più resistente e maneggevole che, prima a Roma poi a Firenze, decretarono la fine della fortuna di questa tecnica, scaturita da un mal riposto desiderio di eternità».

Orazio Gentileschi, «Davide contempla la testa di Golia», 1612 ca, collezione privata

Ada Masoero, 06 ottobre 2025 | © Riproduzione riservata

A Bergamo la tecnica della pittura su pietra tra Cinque e Seicento | Ada Masoero

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