Image

Verifica le date inserite: la data di inizio deve precedere quella di fine

Image
Image

Smettiamo di vantarci visto che non investiamo

Image

Giorgio Bonsanti

Leggi i suoi articoli

Nel Salone di Ferrara si è specchiato un mondo del restauro sfiduciato che emigra all’estero perché il nostro Paese non fa più ricerca 

La crisi c’è, e picchia duro, e chi ha seguito tutte quante le ventidue edizioni del Salone del Restauro di Ferrara senza mancarne una, come il sottoscritto, non può che prendere atto che la sofferenza nell’edizione di quest’anno (6-9 maggio) si sentiva eccome; insieme con la strenua volontà, d’altro canto, di resistere e fare di tutto per garantire vita e salute a questa straordinaria espressione di un settore che unisce come pochi altri tradizione e innovazione, scienza e arte, lavoro ed economia. Dalla prima edizione (nel 1991; le prime tre furono biennali, dopo il Salone diventò annuale), a oggi sono trascorsi venticinque anni, e sembrano un’era geologica. Nel quarto di secolo di vita del Salone sono cambiate tali e tante cose, in questo nostro Paese (come ovviamente dappertutto), che non possiamo pensare che esso soltanto sia rimasto immutato. Per dirne una, l’Istituto per i Beni culturali della Regione Emilia-Romagna era, nell’anno della fondazione del Salone, una realtà forte e importante, che lo ha poi sostenuto e sostanziato negli anni con una presenza attiva e costante.

Oggi, la Regione Emilia esibiva nei padiglioni dei grandi spazi vuoti, abitati soltanto da «ometti» d’informazione sul post-terremoto; argomento ovviamente fondamentale; ma dov’era l’elemento umano? Qualcuno affermava, nei vasti spazi della Fiera di Ferrara, che negli ultimi anni in Italia ha chiuso i battenti il 60% delle imprese di restauro. Io non so se la percentuale sia corretta, ma so che tanta, troppa è la sfiducia che ho sentito esprimere, da parte di tanti restauratori bravi e qualificati, sulla possibilità di vivere decentemente del proprio lavoro.

Nel convegno del venerdì 8 pomeriggio organizzato dal Mibact, col titolo: «Il Ministero riformato: tutela, valorizzazione, turismo», alcuni hanno insistito sulla necessità della valorizzazione, imputando riluttanze e opposizioni a sacche di resistenza alla modernità e all’innovazione. Io prego coloro che nutrono e manifestano questa convinzione (fra gli altri: Giuliano Volpe, docente all’Università di Foggia di cui è rettore emerito, e presidente del Consiglio Superiore per i Beni culturali e paesaggistici) di persuadersi che moltissimi di coloro che esprimono dei distinguo sull’argomento, sono anch’essi del tutto d’accordo sull’importanza di comunicare con il pubblico, di non chiudersi in una torre d’avorio. Il fatto è che da troppo tempo si trovano a combattere quotidianamente con le necessità più urgenti e indifferibili della tutela intesa come garanzia della mera sopravvivenza materiale dei beni di loro competenza.

Se non mi trovo nelle condizioni minime per salvare i beni affidatimi, a chi potrò comunicare, e che cosa potrò valorizzare? Nei loro fogli di accompagnamento al Salone, il ministro e i suoi collaboratori scrivono ripetutamente dell’eccellenza del restauro italiano. È un’affermazione che contiene indubbiamente molto di vero, ma che rischia, se espressa in maniera generica, di presentarci al mondo come provinciali autoreferenziali. Come si può pensare di mantenere delle eccellenze se la struttura dei professionisti della tutela e del restauro non ha i mezzi per investire nella ricerca, nelle sperimentazioni, nelle applicazioni di eccellenza? Nelle famiglie dei miei amici, la grande maggioranza ha almeno un figlio che vive e lavora all’estero. È un fenomeno che solo in apparenza potrebbe interpretarsi positivamente; perché significa invece che la nostra Nazione ha investito (sprecato?) denaro e risorse per formare dei professionisti della cui attività beneficeranno altri Paesi.

Io sostengo da sempre che il mercato del restauro deve essere globale, che è bene che i nostri restauratori, assai più di quanto non accade oggi, vadano per il mondo a dar prova di quanto sanno fare. Ma questa dovrebbe essere una scelta progettuale, non una necessità assoluta dettata dall’impossibilità di mantenersi. E allora, impegniamoci tutti perché si riprenda a investire, perché si privilegi un’attività ricca di opportunità, e sono certo che in tal caso il Salone di Ferrara registrerà ogni cenno d’inversione di tendenza manifestandolo ai suoi frequentatori.


Giorgio Bonsanti, 03 giugno 2015 | © Riproduzione riservata

Altri articoli dell'autore

Aperto per restauri • Diagnosi sul restauro da restaurare di Giorgio Bonsanti, già professore all’Università di Firenze

Aperto per restauri • A un anno dall’inaugurazione del museo, nella nuova sede di Palazzo Cavalli si è tenuto un convegno rivelatosi occasione interessante e piacevole per presentare un’ampia casistica di interventi conservativi infrequenti

Orietta Rossi Pinelli ripercorre le principali tappe di come sono cambiate le regole dalla Carta di Atene del 1931 ad oggi

Operatività, ricerca e didattica hanno improntato l’attività dell’insigne «ambasciatore» del restauro italiano, per quasi quarant’anni attivo all’Opificio delle Pietre Dure di Firenze, di cui è stato soprintendente per dieci anni

Smettiamo di vantarci visto che non investiamo | Giorgio Bonsanti

Smettiamo di vantarci visto che non investiamo | Giorgio Bonsanti