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Luana De Micco
Leggi i suoi articoli«Non c’è differenza tra la copia e l’originale. Quando sono di fronte alla copia provo le stesse emozioni. Sono sicuro che il pubblico non si accorgerà di visitare un facsimile e vivrà un’esperienza paragonabile alla visita della grotta originale». Jean-Michel Geneste, storico della preistoria, è il direttore del Centre nationale de la Préhistoire ed è anche il responsabile dello staff scientifico della grotta di Chauvet. È in questa cavità nascosta tra le colline verdeggianti dell’Ardèche, nella Francia meridionale, che un gruppo di speleologi scoprì vent’anni fa, il 18 dicembre 1994, le creazioni artistiche più antiche della storia dell’umanità: risalgono a 36mila anni fa.
La grotta Chauvet non è mai stata aperta al pubblico per salvarla dall’attacco dei funghi. Nel 2014 è stata inserita nella lista del patrimonio mondiale dell’Unesco «non solo perché è una delle più spettacolari pinacoteche del mondo e un tesoro d’arte praticamente integro. Ma anche perché è un sito che continuerà a produrre conoscenza», ha spiegato Nuria Sanz, responsabile per l’arte rupestre presso l’agenzia delle Nazioni Unite. Si visiterà dunque il suo «doppione», al quale è stato dato il nome di Caverne du Pont-d’Arc, che aprirà le porte al pubblico il 25 aprile.
«Se siamo riusciti a creare un facsimile all’altezza dell’originale è perché abbiamo investito sul progetto tutta la nostra sensibilità e le nostre conoscenze. È stata una grande sfida tecnica. Bisognava restituire con sincerità e armonia le ricchezze dell’originale in uno spazio più compatto. Non eravamo sicuri di farcela», ha osservato ancora Geneste. Per i lavori, iniziati nel 2012, sono stati stanziati 55 milioni di euro. Degli 8.500 mq dell’originale ne sono stati restituiti 3mila. «Ricostruirla metro per metro era tecnicamente e finanziariamente impossibile. Gli esperti hanno identificato gli elementi parietali, geologici e paleontologici essenziali. E sono state rispettate le proporzioni e le distanze relative del percorso», ha spiegato l’architetto Xavier Fabre. Più di 500 professionisti di diverse specializzazioni hanno preso parte al monumentale progetto.
Abbiamo avuto l’opportunità di visitare il cantiere ad alcuni mesi dall’apertura, mentre i tecnici erano ancora al lavoro. Mancavano gli effetti «speciali», oscurità, temperatura, odori, umidità che riprodurranno l’atmosfera di una grotta. Questa fase dei lavori è stata lanciata a gennaio. Ma i decori erano terminati e ci è sembrato di entrare in una scenografia di Cinecittà. Al servizio della preistoria sono state utilizzate le tecniche digitali più all’avanguardia. I calchi in resina delle pareti sono stati realizzati a partire da modelli 3D e poi trasferiti negli atelier, come quello di Gilles Tosello a Tolosa.
Qui l’artista e i suoi collaboratori hanno dipinto gli affreschi riproducendo le tecniche dei nostri antenati, tracciando le figure in rosso ocra o incidendo con il dito sull’argilla morbida. Una testa di bisonte, un corpo di donna, le mani dei tre o quattro artisti che ritornano in tutta la grotta (una ha solo quattro dita), anche un gufo. «Era importante riprodurre la rapidità del gesto dei maestri. Sono tornato decine di volte nella grotta originale, ho ricominciato più volte da capo, per essere sicuro del risultato finale», ha raccontato Alain Danis, della società Arc et Os. Una volta terminate le pitture, i calchi sono stati montati sul posto «come un puzzle».
Dietro «le quinte» c’è uno scheletro di acciaio che sostiene il tutto. Il pezzo forte della visita è la riproduzione dell’affresco di 12 metri detto «dei leoni», una calvalcata di leonesse, rinoceronti, bisonti, cavalli e mammut che sposa le forme delle pareti. Sono stati riprodotti in resina anche 400 resti di ossa di animali e alle pareti i segni delle unghie degli orsi delle caverne. Si attendono almeno 350mila visitatori all’anno e i biglietti sono già in vendita. Intanto, con l’apertura che si avvicina, altri «scopritori» della grotta sono improvvisamente usciti dall’ombra. Ufficialmente la scoperta è attribuita a Eliette Brunel, Christian Hillaire e a Jean-Marie Chauvet, che le dà il nome. Al termine di una lunga procedura, i tre speleologi erano sul punto di firmare con lo Stato un accordo per percepire il 3% sulla vendita dei biglietti del sito. Ma poi a dicembre un gruppo di altri sette speleologi ha a sua volta rivendicato la scoperta che, sostengono, è stata fatta in più tappe e con la partecipazione di altre persone. La firma dell’accordo è stata sospesa fino a nuovo ordine.
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