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Palmira dal tempio allo scempio

Laura Giuliani

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Che cosa resta dell’antichissima città di Palmira sorta in mezzo alla pianura deserta siriana e giunta intatta sino ai giorni nostri, fino a quando le truppe dell’Isis hanno cominciato a distruggere i suoi monumenti?

Quasi un anno fa, il 17 maggio scorso, l’esercito siriano riusciva a respingere i miliziani dello Stato Islamico fuori dalla città; pochi giorni dopo gli stessi militanti l’assalivano e la conquistavano, dando così inizio alla devastazione di uno dei più importanti siti archeologici del mondo. Allo scempio seguiva poco dopo l’uccisione dell’anziano direttore del sito, l’archeologo Khaled al-Asaad, colpevole di aver studiato e difeso fino all’ultimo quei monumenti.

Ai dubbi e alle prime incertezze su che cosa davvero fosse andato perduto, sono subentrate poi le immagini inequivocabili diffuse sul web che hanno confermato gli sfregi compiuti sugli antichi monumenti di Palmira. Per un momento si è sperato che fosse ancora in piedi l’arco monumentale posto all’ingresso della città, costruito tra II e III secolo d.C., sbriciolato e polverizzato dalle esplosioni.

Che fine ha fatto il tempio di Bel, divinità mesopotamica, uno dei monumenti meglio conservati della città edificato in epoca augustea sopra i resti di edifici precedenti? E quello di Baal Shamin (dio della pioggia e della fertilità) eretto nel 130 d.C. sulle rovine di un tempio più antico, e trasformato in chiesa nel V secolo?

Proprio per questo motivo molti musei nel mondo hanno dato il via a diverse iniziative volte a sensibilizzare l’opinione pubblica sul tema della distruzione dei monumenti (in Siria, ma anche in Paesi come l’Iraq, lo Yemen e l’Afghanistan) contribuendo con le proprie collezioni a ricostruire la memoria storica dell’antica città e dunque dei suoi edifici che non ci sono più. Uno di questi musei è il Wallraf-Richartz-Museum di Colonia che fino all’8 maggio presenta la mostra «Palmira. Che cosa resta? Louis-François Cassas e i suoi viaggi in Oriente».

La mostra annovera poco più di una trentina di disegni eseguiti da Louis-François Cassas (1756-1827), archeologo e architetto francese dalle sorprendenti doti artistiche, capace di rappresentare tutta la bellezza e il fascino dei monumenti antichi. Tra il 1784 e il 1787 durante i numerosi soggiorni in Medio Oriente, Cassas ha l’opportunità di visitare l’Egitto, la Libia, Gerusalemme, il Libano e Palmira. Risale al 1792 la pubblicazione del suo Viaggio pittoresco della Siria, della Fenicia, della Palestina e del Basso Egitto.

La celebre città carovaniera sorta in mezzo al deserto quasi per miracolo (il nome arabo di Palmira è Tadmor che deriva dall’aramaico Tadmorto e significa «miracolo»), incrocio di culture diverse, da quella aramaica e poi partica a quella greca e romana, lo affascina così tanto che in soli due mesi Cassas riesce a condensare in meticolosi e dettagliati disegni, alcuni dei quali eseguiti ad acquarello, tutta l’architettura degli edifici di Palmira.

Un’architettura riccamente decorata, talvolta quasi ridondante proprio per i molteplici elementi orientali che la caratterizzano. Le imponenti torri funerarie, alcune delle quali distrutte dall’Isis e fortunatamente immortalate da Cassas, hanno restituito un numero elevato di lastre (a chiusura degli ipogei) vivacemente colorate con le immagini dei defunti appartenenti all’aristocrazia palmirena. Nei disegni di Cassas vi è un’attenzione sorprendente alla qualità dei materiali utilizzati, alle tecniche di costruzione, alle forme e agli stili che hanno reso davvero unica la città.

Quella città che Cesare Brandi al suo arrivo a Palmira a metà degli anni Cinquanta descriveva così in Città del deserto: «... assurda e straordinaria... porto asciutto di sabbia per le dondolanti navicelle dei cammelli, emporio di merci lontane. Tutto il panorama, nel suo perimetro antico, si abbracciava con un’occhiata, il Tempio di Bel, e la Via Colonnata, l’Agorà, il Teatro: tutto era chiaro come in un plastico; e invece stava sotto gli occhi nella sua realtà e per un’estensione che non si riusciva a definire, perché non c’era una misura reciproca fra i monti e le colonne». 

Laura Giuliani, 01 aprile 2016 | © Riproduzione riservata

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