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Nudi e algoritmi

Il vero, l’artificiale e la censura di Facebook

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Flaminio Gualdoni

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Sono un tremila anni che ci proviamo, e poi arrivano quattro ragazzotti dell’ufficio censura di Facebook (si chiama diverso, ma è quella roba lì) e ci spiegano come fare. Dunque, tutto semplice: la nudità «depicted in art» si può, ma la «digitally created nudity or sexual activity» no, ma forse sì, a patto che «only contours [are] visible» e genitali, capezzoli e chiappe siano «not sufficiently detailed».

Sembra semplice, ma il tutto è condito da un simpatico clima di politicamente corretto per cui ogni raffigurazione, depicted o no, di roba perversa o di bambini non passa a prescindere: quindi niente Pasifae, Europa e Leda le zoofile, niente Pigmalione che vuole accoppiarsi con la statua, niente ratto delle Sabine e stupri vari, da Egina a Rea Silvia, niente Alessandro Magno che regala la sua morosa ad Apelle e nemmeno quel simpatico «cuckold» di Candaule che esibisce la moglie ignuda a Gige beccandosi, invece che le corna, una coltellata. Quanto ai bimbi, c’è una storia universale del putto che da secoli non aspettava altro che i giudizi degli occhiuti pirloni californiani e dei loro computer. A proposito della nudità «digitally created», a occhio e croce pressoché tutto quel che passa il convento, tra starlette e regine del web, è un trafficar di pixel, quindi la faccenda di cosa sia reale e di cosa no, di cosa sia «vero» e cosa artificio si fa particolarmente scivolosa, sino al ridicolo.

Ma a prescindere, ti pare che siamo qui ancora nell’anno di grazia 2017 a menarcela sulla «nudity» e la «nakedness»? Siamo qui ancora non a parafrasare san Carlo Borromeo, uno dei fan più intransigenti della Controriforma, che tuonava di tenersi alla larga «dal turpe e dall’osceno, dal disonesto e da ciò che ostenta lascivia», ché era qualche secolo fa e almeno lui le sue buone ragioni le aveva essendo un prete, ma a discutere se una donna che allatta o una scena biblica o mitologica siano o non siano accettabili nei social: roba da dar la testa nel muro. I social, che son posti in cui si scaricano bellamente ogni dì migliaia e migliaia di vaccate d’ogni genere, dove girano fenomeni come una tal Magdalena Wosinska, la cui estetica consiste nel fotografarsi in paesaggi da agenzia di viaggio con il didietro nudo perennemente in bella vista, o Emily Ratajkowski, le cui chiappe sono più pubblicate della faccia di Trump (il che, in generale, considero un bene): e queste tizie non sono, giusto per stare su roba vecchia, Carolee Schneemann o Valie Export, di cui peraltro ogni po’ vengono rimosse le vecchie esibizioni femministe, ma la differenza la capirebbe anche un deficiente. E per fortuna di tizi come il mitico Boris di Blue Movie di Terry Southern, grande regista che s’annoia e allora gira un film porno, ma dato che lo fa lui si deve dire che è arte, non ce n’è in giro troppi. Mi viene in mente quando, circa un secolo fa, dei giudici parigini si trovarono a questionare dottamente se fosse più scandaloso il fatto che l’attrice accusata d’oscenità «era rasata alle ascelle e al pube» oppure se fosse più pruriginosa l’ostensione della peluria. Ma era un secolo fa, appunto, uno si aspetta che un po’ di ragionamenti da allora, e da quando quel bigottone di Mark Twain denunciava «the foulest, the vilest, the obscenest picture the world possesses - Titian’s Venus», si siano fatti.

La vera questione è che gli algoritmi non studiano, e che quelli che stabiliscono i pacchetti di regole e quelli che li dovrebbero manovrare sono ancora più intellettualmente inerti delle macchine che comandano. Invece di scrivere delle linee-guida e mettersi lì a definire che cosa si può e che cosa no, sarà il caso di assumere tizi che abbiano studiato e visto il mondo giusto quel minimo: esistono persino dei californiani che hanno letto dei libri, ne sono sicuro. Aveva ragione quel vecchio grande giudice americano, Potter Stewart, che chiamato mezzo secolo fa a decidere se «Les amants» di Louis Malle fosse osceno, tagliò corto dicendo che, quanto all’osceno, «I can’t define it, but I know it when I see it» (non so definirlo, ma quando lo vedo lo riconosco): non definire, signori dei social, basta metter lì qualcuno che pensa.

Flaminio Gualdoni, 15 settembre 2016 | © Riproduzione riservata

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