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Massimo Bray

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Massimo Bray

Noi italiani senza rispetto per la storia

Il diario privato di Massimo Bray, un ministro anomalo dei Beni culturali

È sempre stato un manager della cultura. Nel 2013, quando è arrivata la nomina a ministro dei Beni Culturali nel Governo Letta, Massimo Bray, pur deputato Pd dal 2012, era conosciuto soltanto come direttore editoriale dell’Istituto dell’Enciclopedia Italiana Treccani dal 1994, certo non come uomo politico.

Al cambio di Governo, nel 2014 si è dimesso da parlamentare ed è tornato alla Treccani come direttore generale. La sua nomina era stata quasi una anomalia del sistema, una scelta non frequente nella storia del MiBACT. Certo, ricordiamo Spadolini, Ronchey, Paolucci, Urbani e pochissimi altri, ma dei 27 ministri che si sono succeduti dal 1974, gli uomini di cultura formano una netta minoranza. Il mandato di Bray è durato appena 10 mesi: non sufficienti per lasciare un segno forte nella politica culturale del nostro paese.

Ma il caso Bray è stato tuttavia un’eccezione positiva e alcuni suoi interventi si sono dimostrati importanti e duraturi. Il significato di quella sua presenza al vertice del Ministero può essere ora meglio spiegato e valutato leggendo il libro che ha scritto di recente su quel periodo, per lui straordinario. Bray l’ha scritto seguendo il filo discontinuo degli appunti di un diario privato. Nessuna rivelazione, niente di sensazionale, ma racconti e ragionamenti sulla situazione del nostro patrimonio artistico e sui suoi tentativi di migliorarla. Pochi i riferimenti al suo lavoro a tavolino, dentro al Ministero, tra circolari e burocrazia: niente politica del giorno per giorno.

Il racconto di Bray si sofferma però sulla sua volontà di far approvare e realizzare il Decreto «Valore cultura» con il quale, spiega, ho cercato di «invertire un trend, di fare in modo che la cultura si riappropriasse di un ruolo centrale, riacquistando la capacità di influenzare le scelte politiche e sociali del Paese». Dunque Bray spiega come quel decreto legge partì «dal rilancio di Pompei come simbolo delle buone politiche che il Paese doveva attivare nei confronti degli obblighi di tutela e valorizzazione di uno dei patrimoni più importanti e straordinari del mondo», per proseguire con il completamento dei lavori negli Uffizi e la creazione a Ferrara del Museo dell’Ebraismo.

Tra i ricordi Bray descrive con orgoglio una delle sue prime decisioni da ministro, un’operazione riuscita condotta tra lo scetticismo dei colleghi dello stesso Ministero: l’acquisizione allo Stato della Reggia borbonica di Carditello vicino a Caserta, depredata e vandalizzata, da anni in vendita, ma che nessuno voleva, stretta tra progetti di speculazione e abbandono. Uno sforzo condotto in funzione della visione che accompagna ogni pagina e ogni suo ragionamento: il bene culturale «non è soltanto un tesoro da conservare per il valore che esso di per sé rappresenta, ma anche come una straordinaria opportunità di sviluppo sociale ed economico».

Molto citato nel libro il Sud che ama e dove tornava spesso con la piena coscienza delle sue arretratezze. Del resto lui veniva da Lecce, dove aveva creato «la Notte della Taranta» che «non è solo un’occasione musicale; è un incontro che alimenta e tutela le identità di un territorio». Riuscì a provare quella che descrive come «una delle più forti emozioni della mia vita», vedere cioè finalmente al loro posto, nel museo di Reggio Calabria, i «Bronzi di Riace».

Un altro aspetto che Bray sviluppa nel libro è l'importanza capitale della diplomazia culturale. Per questo insiste nel raccontare in dettaglio i suoi viaggi di lavoro, in Iran, Palestina, Giordania, Cile, Israele, e l’atmosfera positiva che li ha accompagnati. «La cultura, scrive, dovrebbe svolgere un ruolo di primo piano nel campo delle relazioni internazionali e della diplomazia grazie alla crescente consapevolezza della forza dirompente affidata al suo messaggio. È questo il terreno privilegiato su cui dobbiamo cercare di sviluppare il dialogo tra Oriente e Occidente». E nei suoi colloqui più difficili, come quello in Iran con l’ayatollah Rafsanjani, racconta come facesse sempre risaltare le affinità e la vicinanza tra le culture diverse.

È proprio sull’Italia che Bray esprime però i sui dubbi per il futuro: «Questo Paese meraviglioso mi ha stupito, mi ha emozionato, mi ha fatto soffrire e gioire: è un Paese di donne e uomini che non hanno mai smesso di difenderlo, di curarlo, di amarlo; ma a volte mi è apparso un Paese che ha smarrito il senso del limite, del rispetto verso la sua storia».

Alla voce cultura. Diario sospeso della mia esperienza di ministro, di Massimo Bray, 220 pp., Manni, San Cesario di Lecce 2019, € 16,00
 

Edek Osser, 21 marzo 2020 | © Riproduzione riservata

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