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Franco Fanelli
Leggi i suoi articoliUna grande installazione composta da opere storiche di Giovanni Anselmo nella Manica Lunga: un viaggio nell’infinito e nella poesia anche se «navighiamo in un mare in tempesta e non sappiamo se e quando toccheremo terra»
«Era un pomeriggio del 1969 e io camminavo nella campagna verso il sole che calava. Avevo con me una macchina fotografica; ogni venti passi scattavo una fotografia verso l’orizzonte al tramonto. Nel rullino c’erano venti pose e altrettante furono le fotografie che scattai. C’era un doppio motivo in tutto questo: da un lato, camminando verso Occidente prolungavo la presenza del sole; dall’altro, mi stavo muovendo come una piccola luna, che ha una sua traiettoria nello spazio, come tanti oggetti che si muovono nel cosmo».
Nasceva così una delle opere più note di Giovanni Anselmo, «Interferenza umana nella gravitazione universale». Una di quelle opere che, come altre nel lavoro dell’artista piemontese (Borgofranco d’Ivrea, 1934), mettono in relazione l’infinitamente piccolo e l’infinitamente vasto, il particolare e l’infinito, l’opera, l’uomo e lo spazio.
I venti scatti di quell’opera, ingranditi dai 3x3 cm di allora ai 30x30 cm di oggi, scandiscono il percorso della personale che il Castello di Rivoli-Museo d’Arte contemporanea gli dedica dal 5 aprile all’11 novembre. In concomitanza la Gam-Galleria Civica d’Arte moderna e contemporanea di Torino, nell’ambito dell’esposizione «Archivi 1: Giovanni Anselmo», a cura di Gregorio Mazzonis e Maria Teresa Roberto, dal 6 aprile all’11 settembre presenta l’opera «Direzione (Direction)» (1967).
Quella a Rivoli è la prima mostra organizzata sotto la nuova direzione del museo, passata a gennaio a Carolyn Christov-Bakargiev , che la cura insieme a Marcella Beccaria. «Ho esposto molte volte al Castello, continua Anselmo, ma mai nella Manica Lunga. Qui sono stato costretto a fare i conti con la particolarità dello spazio, lungo quasi 140 metri e largo 6: uno spazio difficile e nel contempo senza limiti. Quindi invito i visitatori a compiere la mia camminata del 1969: la Manica Lunga, del resto, è orientata a sud-ovest, in direzione del tramonto, e il percorso è scandito dalle immagini ingrandite scattate allora».
Il paesaggio, l’ambiente, è un tema ricorrente nella sua opera: ha riflettuto anche sulla visione panoramica che offrono le finestre della Manica Lunga?
In mostra inserisco un altro lavoro storico, «Il panorama con mano che lo indica», il disegno di una mano che vuol essere un omaggio alla pittura storica e alla prospettiva virtuale, quella offerta dalle opere esposte. Ma se tra una finestra e l’altra sono collocate le fotografie che invitano a una camminata virtuale, guardando dalle finestre si scorge il paesaggio circostante e la camminata diventa reale. Un’altra opera è costituita da terra sul pavimento con un ago magnetico, e da alcuni blocchi di pietra alti una spanna: il visitatore, salendovi, gode di una nuova prospettiva, ma nel contempo, per citare il titolo dell’opera, si avvicina di una spanna alle stelle.
Un atto e una misura minimi bastano per compiere un viaggio spaziale?
Sì, di una spanna. Si può dire: «Ti accontenti di poco», ma intanto è un modo reale per metterci in relazione con distanze siderali. Perché, sebbene infinitamente piccoli nell’immensità del cosmo, non è vero che non contiamo niente. Infine la mostra è completata da periodiche proiezioni della parola «particolare», altro lavoro storico, per mettere a fuoco determinati punti, polarizzare certe atmosfere.
C’è un sostrato visionario nel progetto di questa mostra che potrebbe suggerire un legame con la vertigine barocca che ha ispirato la costruzione della Manica Lunga, antica galleria ducale. Ci ha pensato?
È stato un luogo di potere, costruito dai potenti. Noi oggi abbiamo il potere della camminata, la possibilità di compiere questo percorso senza bisogno di avere la corona in testa.
Era un luogo dedicato alla pittura. Lei stesso iniziò come pittore e il suo collega Kounellis continua a definirsi tale. Che cos’è la pittura?
È colore e luce. Ho dedicato una mia opera all’aura della pittura (l’opera, del 1996, è composta da tre grandi lastre rettangolari di granito nero d’Africa posate per terra da cui emana la luminescenza dei tre colori primari che emergono dai bordi in alto, Ndr) mostrando il colore che si manifesta, si svela, allorché la luce colpisce il pigmento. Ecco, la pittura ha a che fare con la velocità della luce, con scariche incredibili. Poi certo, c’è tutto quello che vive nel quadro, c’è la storia, l’iconografia, si è fatta pittura per secoli e per fortuna la si continua a fare.
Fu la Biennale del 1990, diretta da Giovanni Carandente, a «incoronarla» come pittore assegnandole il Leone d’Oro per questa disciplina, tra la sorpresa di molti.
Alla Biennale appesi delle lastre di pietra di colore differente a delle tele con dei cappi. Non bisogna dimenticare che i pigmenti vengono ottenuti dai minerali, ma in quel caso, contrariamente a quanto era sempre accaduto, era il peso del colore a sostenere la tela, e non viceversa.
Si dice che lei sia un eccellente disegnatore.
Lo ero anche alle scuole medie, tanto che il professore consigliò a mio padre di iscrivermi al liceo artistico. Ma a Ivrea quella scuola non esisteva, quindi presi un’altra strada. Per qualche anno ho fatto il contabile per le vendite rateali della casa editrice Einaudi, che all’epoca vendeva i suoi libri viaggiando con appositi furgoni. All’inizio mi divertivo a veder quadrare i conti, ma spesso accadeva che alcuni clienti non pagassero più le rate, e allora tutto si complicava. A volte mi veniva la tentazione di scambiare per gioco le schede con i pagamenti dei clienti e capii che sarebbe stato meglio cambiare lavoro. Feci anche il disegnatore grafico e ripresi a dipingere per conto mio, esercitandomi con l’acquarello e la tempera. Poi iniziai a visitare le gallerie più importanti a Torino, incontrai Gian Enzo Sperone e il mio lavoro cambiò. Nel 1967 cominciai a esporre da lui. Ma lei mi chiedeva del disegno: eseguo degli schizzi in preparazione delle mie opere, con forme abbozzate e misure; so che alcuni colleghi espongono anche questo tipo di lavori, ma per me rimangono degli schizzi e basta.
Un’altra folgorazione, oltre alla conoscenza di Sperone, risale al 1965, data di una sua ascensione allo Stromboli. Che cosa accadde?
Scattò in me una specie di «clic»; mi parve, per un attimo, di trovarmi al centro del cosmo. Ero in cima, tra la terra della montagna, il fuoco del cratere, l’acqua del mare e l’aria che mi circondava. All’alba di quel 16 agosto ebbi la percezione del fatto che la mia ombra non esistesse più ma si proiettasse nello spazio, che la mia figura interferisse con l’immensità della luce e dello spazio.
«La mia persona, mediante l’ombra invisibile, ha avuto un contatto con la luce, con l’infinito. Compresi allora di essere stato partecipe di una straordinaria situazione di velocità, di sole e di spazio»: così lei definì quella straordinaria esperienza, documentata da una celebre fotografia. Ma in tutto il suo lavoro è presente questa dimensione visionaria, questa aspirazione all’infinito che trova esiti poetici, quasi neoromantici, non solo nelle sue opere ma anche nei titoli che attribuisce loro, nei suoi scritti. Il riferimento può far tremare, ma quando parla dei suoi lavori vengono in mente le «vaghe stelle dell’Orsa» di Leopardi...
Leopardi mi è molto...simpatico: «Che fai tu, luna, in ciel? Dimmi, che fai, silenziosa luna?». Ma i titoli delle mie opere o delle mie mostre (quella attuale s’intitola «Mentre la mano indica,/la luce focalizza,/nella gravitazione universale si interferisce,/la terra si orienta, le stelle si avvicinano di una spanna di più...», Ndr), così come le parole, sono un accompagnamento, una piccola introduzione all’opera. Una sorta di «Prego, entri, si accomodi», uno stringersi la mano come abbiamo fatto poco fa lei ed io. Comunque se vuole chiedermi se amo scrivere le dico di no: lo facessi, perderei molto tempo a correggere, a cancellare e a riscrivere. Mi è più congeniale attaccare una pietra su una tela!
Torniamo sulla terra. Che effetto le fa aprire un giornale e scoprire che una sua opera all’asta è stata venduta per oltre 5 milioni di euro, com’è accaduto lo scorso anno?
La accolgo come una notizia astratta. I media ci danno notizie paradossali, ci danno l’illusione di offrire informazione. Ma è vero, viviamo tra i paradossi, con i giovani dell’Isis che uccidono in nome di Allah esattamente come secoli fa lo si faceva in nome di Cristo. Vede, lei ed io prima di questa intervista parlavamo delle persone che per il mio lavoro sono state importanti e io le ho indicato Sperone, Celant, Ammann, Szeemann e Fuchs. Lo dico perché sono persone che conosco, ma tutte le creature sono un miracolo. È un’epoca tempestosa, le cose cambiano giorno dopo giorno, rapidamente. Navighiamo in un mare sempre molto mosso, cioè pericoloso, e non sappiamo se e quando toccheremo terra.
«Torsione», del 1968, l’opera cui accennavo prima, è uno dei suo lavori più celebri e al di là del prezzo ha quella che Walter Benjamin chiamava «aura». Ce l’ha anche un lavoro come quello che venne esposto nel 1998 ad Atene, in una collettiva dedicata all’arte italiana promossa dalla Fondazione Costopoulos. Ricorda? Non si trovava il materiale per realizzare il lavoro che lei aveva in mente e allora chiese a un suo collezionista di Atene di prestargli una sua opera. Si trattava di un blocco di granito con incastonata una bussola. Quando l’opera arrivò, la mostra era ormai allestita. Ricordo che alcuni giovani artisti che vi esponevano preferirono spostare le loro.
Perché?
Dicevano che il suo era un lavoro troppo potente. Anche se di dimensioni non eccezionali, «inghiottiva» quanto gli stava intorno...
Non ne sapevo nulla. Mi dispiace molto. A volte quando si espone un’opera bisognerebbe essere più cauti.
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