«Il Rifugio Digitale rappresenta, come Matrix, l’ingresso fisico a un mondo virtuale», spiega Marco Casamonti, docente e architetto, cofondatore di Archea, studio di progettazione tra i più importanti in Italia. È lui che ha voluto trasformare un bunker abbandonato della seconda guerra mondiale in uno spazio tecnologicamente all’avanguardia dove espongono artisti, architetti e fotografi. Ecco i suoi progetti, lontani da quelli del fratello Michele che insieme al padre Roberto gestisce la galleria Tornabuoni.
A Firenze, dove un tempo sorgeva un bunker, è nato qualche mese fa il Rifugio Digitale. Qual è la ragione di questa scelta?
La catarsi. Mi piace pensare che un luogo dal passato tragico sia oggi identificabile con la rinascita e il progresso.
Forse dobbiamo cominciare a difenderci anche dall’invasione del digitale?
Soprattutto per l’uso smodato che se ne fa. Del resto, il rifugio è un luogo sicuro che dà protezione. È come entrare nel ventre materno. O essere inghiottiti dalla balena di Pinocchio.
Qual è la sensazione di chi approda al Rifugio?
Come in Matrix è l’ingresso fisico a un mondo virtuale. Lo spazio lungo e stretto ha una superficie di 165 metri quadrati che coinvolge lo spettatore fisicamente ed emotivamente. L’entrata e l’uscita coincidono, ma la visione in salita e in discesa appare molto differente. I 16 monitor disposti lungo i 33 metri del tunnel sono alternati e non paralleli creando già di per sé un’installazione che costringe tutti coloro che espongono a confrontarsi con questa struttura già molto denotata.
Dal Rifugio si può anche fuggire...
Chi dovesse sentirsi in trappola trova in fondo allo spazio una scala a chiocciola da cui scappavano i soldati. Ma non è consigliabile: è estremamente ripida...
Per quale ragione ha deciso di creare una galleria virtuale in un bunker della seconda guerra mondiale?
Ci passavo davanti spesso e mi sembrava assurdo che un luogo di quelle dimensioni così carico di umanità fosse abbandonato sin dagli Quaranta. Prima del nostro intervento era completamente allagato e tenendo conto che dietro al tunnel sorgeva la Villa delle Sorgenti la prima idea era stata quella di ristrutturarlo per realizzare una piscina o eventualmente una palestra. Ma nessuna di queste ipotesi mi pareva soddisfacente. Così ho pensato a una struttura sperimentale che potesse sopperire alle carenze di un sistema ampiamente deficitario dove in Italia gli spazi digitali, soprattutto privati, sono praticamente inesistenti.
Come ha gestito il progetto?
Attraverso lo studio Archea Associati che ho fondato nel 1988 insieme a Laura Andreini, direttrice artistica del Rifugio Digitale, e Giovanni Polazzi. Attualmente, Archea collabora con 120 architetti e può contare su società partner negli Emirati Arabi, Brasile, Cina e Albania.
In questo caso quali sono stati i criteri principali utilizzati per la ristrutturazione?
Abbiamo voluto coniugare la tecnologia all’avanguardia con l’ecologia. Il Rifugio Digitale è al 100% sostenibile con una base in calcestruzzo rivestita da ceramica verde e blu riflettente che ricorda le stazioni della metropolitana.
Lo spazio ha una caratteristica multidisciplinare. Dopo aver esordito con Fabrizio Plessi, tra i pionieri dell’arte digitale che ha realizzato un’opera inedita intitolata «Oro», sino all’8 settembre è proposta «Lonely Living. L’architettura dello spazio primario». Quali sono i contenuti di questa iniziativa?
Interrogarsi sull’abitare in solitaria, un tema che la pandemia ha reso particolarmente attuale, come dimostrano i nuovi comportamenti entrati nella quotidianità tra cui lo smart working. Il punto di partenza è stata l’VIII Biennale di Architettura del 2002, dove ci fu chiesto (c’ero anch’io in quella mostra) di relazionarci con l’abitare minimo. Ora i progetti di allora sono al Rifugio Digitale in un allestimento davvero speciale in cui i protagonisti sono diciannove tra studi di architettura e architetti con lavori tra gli altri di Alberto Cecchetto, Alfonso Febia, Italo Rota e Cino Zucchi.
E dopo «Lonely Living»?
Dal 15 settembre verrà presentata una mostra di Roberto Di Caro, giornalista e fotografo de «L’Espresso» che propone sotto forma di movie i suoi intensi reportage realizzati in Iraq e Afghanistan durante l’occupazione americana. Successivamente, per un anno andrà in scena «Supernatural» con 10 fotografi che si confrontano col tema della natura in un progetto curato da Paolo Cagnacci e Irene Alison e realizzato dall’Associazione Culturale Rifugio Digitale con la collaborazione di Banca Ifigest.
Arte, architettura e molta fotografia, dunque. Ma qual è la relazione con le sperimentazioni digitali?
Ogni mostra sarà fruibile nello spazio fisico del Rifugio per poi proseguire sulla rete. C’è poi un aspetto importante che prevede per ogni progetto la realizzazione di una serie di Nft. L’idea è quella di creare una forma di collezionismo diffuso con prodotti in edizioni limitata disponibili a prezzi molto contenuti. Abbiamo iniziato con Plessi vendendo per beneficenza oltre cento token intorno ai mille euro. Il Rifugio Digitale insomma connetterà la dimensione fisica e quello virtuale con eventi e mostre che si alterneranno ogni quindici giorni in modo da creare un network sempre attivo e dinamico.
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