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Redazione GDA
Leggi i suoi articoliLa prima volta che sono andato a Colmar per vedere la pala d’altare di Grünewald era il 1963. Ci sono tornato per la seconda volta dieci anni dopo. Senza averlo pianificato. Nel frattempo molte cose erano cambiate. Non a Colmar, ma nel mondo e nella mia vita. La svolta decisiva è avvenuta esattamente a metà decennio. Nel 1968 alcune speranze, nutrite più o meno clandestinamente per anni, erano venute alla luce in varie parti del mondo e avevano avuto nome; e in quello stesso anno erano state irrevocabilmente sconfitte. Ma questo lo abbiamo capito solo retrospettivamente. A quel tempo molti di noi tentavano di proteggersi da quella dura realtà.
All’inizio del 1969, per esempio, pensavamo ancora che il ’68 si sarebbe potuto ripetere. Non è qui il caso di analizzare cosa fosse cambiato nell’allineamento delle forze politiche su scala mondiale. È sufficiente dire che era stata spianata la strada a quella che in seguito si sarebbe chiamata «normalizzazione». Anche migliaia di vite avevano subito un cambiamento. Ma questo, nei libri di storia, non troverà posto. (Nel 1848, se pur in forma diversa, si produsse uno spartiacque analogo e i suoi effetti sulla vita di un’intera generazione sono registrati non nei libri di storia, ma ne L’educazione sentimentale di Flaubert).
Quando guardo i miei amici, in particolare chi aveva (o ancora ha) una coscienza politica, vedo quanto la direzione delle loro vite sia stata modificata o deviata in quel momento, proprio come sarebbe potuto accadere a seguito di un evento privato: il manifestarsi di una malattia, una guarigione inaspettata, un rovescio economico. E, se guardassero me, credo che anche loro vedrebbero qualcosa di simile. Normalizzazione significa che, tra i diversi sistemi politici che si spartiscono il controllo della quasi totalità del mondo, tutto può essere oggetto di scambio alla sola condizione che nulla, da nessuna parte, cambi radicalmente. Si dà per scontato che il presente sia continuo, in quanto la continuità consente lo sviluppo tecnologico.
Un periodo di speranze e di grandi aspettative (come gli anni che hanno preceduto il 1968) incoraggia a sentirsi forti e risoluti, pronti a affrontare qualunque cosa. L’unico pericolo sembra rappresentato dal disimpegno o dal sentimentalismo. La dura verità contribuirà alla liberazione. Questo principio si integra a tal punto con il proprio pensiero che lo si accetta senza discutere. Si è coscienti che le cose potrebbero andare diversamente. La speranza è una lente che consente una meravigliosa messa a fuoco. Il vostro occhio vi si fissa. Siete in grado di esaminare tutto ciò che volete.
La pala d’altare di Grünewald, al pari delle tragedie greche o dei romanzi del diciannovesimo secolo, fu in origine concepita per inglobare la totalità della vita e una spiegazione del mondo. Fu dipinta su pannelli di legno incernierati; quando i pannelli erano chiusi, chi stava davanti all’altare vedeva la Crocifissione affiancata da sant’Antonio e san Sebastiano. Quando i primi pannelli venivano aperti, vedeva un Concerto di angeli e una Madonna con Bambino, affiancati da un’Annunciazione e una Resurrezione. Quando i pannelli venivano ulteriormente aperti, vedeva alcuni apostoli e alcuni alti ecclesiastici affiancati da scene della vita di sant’Antonio.
La pala d’altare fu commissionata dall’ordine degli Antoniti. Era destinata all’ospizio di Isenheim, dove venivano ricoverate le vittime della peste e della sifilide. La pala d’altare doveva aiutarle a farsi una ragione delle loro sofferenze. In occasione della mia prima visita a Colmar, avevo visto nella Crocifissione la chiave di tutta l’opera e nella malattia la chiave della Crocifissione. «Più guardo, più mi convinco che per Grünewald la malattia rappresenta la condizione effettiva dell’uomo. Per lui la malattia non è il preludio alla morte, come teme l’uomo moderno, ma la condizione stessa del vivere». Ecco cosa ne avevo scritto nel 1963. Avevo ignorato le articolazioni della pala. Grazie alla mia lente della speranza potevo fare tranquillamente a meno dei pannelli in cui la speranza era raffigurata. Vedevo il Cristo della Resurrezione «pallido del pallore della morte»; vedevo la Vergine dell’Annunciazione reagire alle parole dell’Angelo come «alla notizia di una malattia incurabile»; nella Madonna con Bambino avevo notato che il panno delle fasce era identico al telo stracciato (e infetto) che sarebbe stato usato per avvolgere i lombi di Cristo nella Crocifissione. Questa visione dell’opera non era del tutto arbitraria. In molte parti d’Europa l’inizio del XVI secolo fu patito e vissuto come un’epoca di dannazione. Senza dubbio questa esperienza è presente nella pala d’altare, anche se non in modo esclusivo. Tuttavia, nel 1963, io non vedevo che la desolazione. Non avevo bisogno d’altro.
Dieci anni dopo, il gigantesco corpo crocifisso continuava a incombere sui dolenti raffigurati nel dipinto e sui visitatori in piedi di fronte alla pala. Questa volta ho pensato: la tradizione europea è piena di scene di tortura e sofferenza, per lo più di natura sadica. Come mai questo dipinto, che è uno dei più duri e pervasi di dolore, rappresenta un’eccezione? In che modo è dipinto? È dipinto centimetro per centimetro. Nessun contorno, nessun vuoto, nessuna asperità nei contorni tradisce un’esitazione nell’intensità della pittura. L’atto del dipingere è inseparabile dalla sofferenza patita. Poiché nessuna parte del corpo sfugge al dolore, la pittura non può in nessun punto cedere in precisione. La causa del dolore è irrilevante, ciò che conta è la fedeltà della pittura. Questa fedeltà nasceva dall’empatia d’amore. L’amore conferisce innocenza. Non ha nulla da perdonare. La persona amata è diversa dalla persona che vediamo attraversare la strada o lavarsi la faccia. Ed è diversa anche dalla persona che ha una sua vita e una sua esperienza, perché quest’ultima (uomo o donna che sia) non può rimanere innocente.
Chi è dunque l’amato? Un mistero, la cui identità non è confermata da nessuno se non dall’amante. Dostoevskij lo aveva capito così bene. L’amore è solitario anche se unisce. La persona amata è l’essere che perdura anche quando le sue azioni e la sua egocentricità si sono dissolte. L’amore riconosce una persona prima ancora che agisca e la riconosce immutata dopo che ha agito. La investe di un valore che non è traducibile in virtù. Questo tipo d’amore può riassumersi nell’amore della madre per il figlio. La passione non è che una forma d’amore. Eppure vi sono alcune differenze. Il bambino è un essere in divenire. Il bambino è incompleto. Può essere straordinariamente completo in ciò che è in ogni singolo istante. Tuttavia, nel passaggio fra diversi momenti, diventa dipendente e la sua incompletezza si fa evidente. La madre ama il figlio con indulgenza, lo immagina più completo di quanto non sia. I loro desideri si mescolano, o si alternano. Come gambe che camminano. La scoperta di una persona amata, già formata e completa, è l’inizio di una passione. Il riconoscimento che diamo alle persone per cui non proviamo amore si basa sulle loro opere. I successi che giudichiamo importanti possono discordare da quelli che la società riconosce come tali. Tuttavia, a coloro che non amiamo, diamo importanza in base al loro modo di riempire un contorno, e per descrivere questo contorno ci serviamo di aggettivi comparativi. La loro «forma» globale è la somma delle loro opere, così come le qualificano gli aggettivi. Di tutt’altra natura è il nostro modo di vedere l’essere amato. Il suo contorno o forma non è una superficie circoscritta, ma un orizzonte che ci circonda. Riconosciamo l’amato/a non dai suoi successi, ma dai verbi che lo/a possono soddisfare. Anche se divergono da quelli dell’amante, i suoi bisogni creano valore: il valore di quell’amore. Per Grünewald il verbo era «dipingere». Dipingere la vita di Cristo. L’empatia, portata al livello al quale la portò Grünewald, può rivelare un’area di verità fra l’oggettivo e il soggettivo. I medici e gli scienziati che oggi si occupano di fenomenologia del dolore dovrebbero studiare a fondo questo dipinto. La distorsione delle forme e delle proporzioni, l’ingrandimento dei piedi, la compressione del torso, l’allungamento delle braccia, l’estensione delle dita, descrivono con esattezza l’anatomia «sensibile» del dolore. Non voglio dire che nel 1973 io abbia visto qualcosa di più che nel 1963. Ho visto in modo diverso. Tutto qui. I dieci anni trascorsi non rappresentano necessariamente un progresso; per molti versi rappresentano una sconfitta.
La pala d’altare è sistemata in un’alta galleria dalle finestre gotiche non lontano da un fiume e da alcuni magazzini. Durante la mia seconda visita prendevo appunti e di tanto in tanto alzavo gli occhi verso il Concerto degli angeli. La sala era deserta a parte il custode, un vecchio che si sfregava le mani coperte da guanti di lana su una stufa a petrolio portatile. A un certo punto ho alzato gli occhi e mi sono accorto che qualcosa si era mosso o era mutato. Eppure non avevo sentito nulla e la sala era immersa nel silenzio. Poi ho capito che cosa era cambiato. Era uscito il sole. Basso nel cielo invernale, splendeva attraverso le finestre gotiche, così che sulla bianca parete opposta i loro archi acuti si imprimevano, con margini netti, nella luce. Ho spostato lo sguardo dalle «finestre di luce» sulla parete alla luce dipinta nei pannelli: la finestra dipinta sul fondo della cappella dove ha luogo l’Annunciazione, il chiarore che si riversa dalla montagna alle spalle della Madonna col Bambino, il grande cerchio di luce simile a un’aurora boreale attorno al Cristo risorto. In tutti i casi la luce dipinta non era mutata. Restava luce, non si disintegrava in pittura colorata. Poi il sole si è nascosto e la parete bianca ha perso la sua animazione. I dipinti hanno mantenuto intatta la loro luminosità. L’intera pala d’altare, adesso lo capivo, parla di tenebra e luce. Lo spazio immenso del cielo e della pianura dietro la Crocifissione, la pianura d’Alsazia attraversata da migliaia di profughi in fuga dalla guerra e dalla carestia, è deserto e immerso in un’oscurità che appare definitiva. Nel 1963 la luce negli altri pannelli mi era apparsa fragile e artificiale. O, per essere più precisi, fragile e soprannaturale. (Una luce sognata nell’oscurità.)
Nel 1973 mi è parso di capire che la luce dipinta in questi pannelli corrisponde all’esperienza fondamentale della luce. Solo in rare circostanze la luce è uniforme e costante. (Talvolta sul mare; talvolta in alta montagna). Normalmente la luce è variegata o mutevole, solcata da ombre. Alcune superfici riflettono più luce di altre. La luce non è, come vorrebbero farci credere i moralisti, l’opposto polare e costante del buio. La luce fiammeggia nelle tenebre. Prendete i pannelli della Madonna col Bambino e del Consesso di angeli. Quando non è del tutto regolare, la luce stravolge la normale misura dello spazio. La luce ri-forma lo spazio come noi lo percepiamo. Dapprima ciò che è in luce tende a sembrare più vicino di ciò che è in ombra. Le luci di un villaggio, la notte, ce lo fanno apparire più prossimo. A un esame più attento, questo fenomeno diventa ancor più sottile. Ogni concentrazione di luce agisce come un centro di attrazione fantastica, così che con l’immaginazione misuriamo «a partire da quel punto» attraverso le zone d’ombra o d’oscurità. Ci sono dunque tanti spazi articolati quante sono le concentrazioni di luce. La posizione in cui si è situati stabilisce lo spazio primario di una proiezione orizzontale.
Ma, allontanandosi da lì, inizia un dialogo fra ogni punto illuminato, per quanto distante, e ciascuno propone un altro spazio e una diversa articolazione spaziale. Ogni spazio dove brilla la luce ci invita a immaginare di essere lì. È come se l’occhio che vede vedesse un’eco di se stesso ovunque si concentra la luce. Questa molteplicità è una forma di gioia. L’attrazione dell’occhio per la luce, l’attrazione dell’organismo per la luce come sorgente di energia, è fondamentale. L’attrazione dell’immaginazione per la luce è più complessa, perché coinvolge l’intera mente e quindi comporta un’esperienza comparativa. Noi reagiamo alle modificazioni fisiche della luce con modificazioni nette, anche se infinitesimali, dell’umore: buono o cattivo, fiducioso o trepidante. Di fronte alla maggior parte delle scene la nostra esperienza della loro luminosità si articola in zone spaziali di sicurezza e di dubbio. La visione avanza di luce in luce come se camminasse sulle pietre di un guado.
Unite le due osservazioni appena fatte: la speranza attrae, irradia come un punto a cui vogliamo essere vicini, dal quale vogliamo prendere le misure. Il dubbio, invece, non ha centro, è ubiquo. Di qui la forza e la fragilità della luce di Grünewald.
Tutte e due le volte che sono andato a Colmar era inverno, e la città era sotto la morsa del gelo, il gelo che viene dalla pianura e porta con sé il ricordo della fame. Nella stessa città, in condizioni fisiche simili, ho visto in modo diverso. È banale osservare che l’importanza di un’opera d’arte si modifica in funzione della sua durata nel tempo. Di solito, tuttavia, questo concetto è usato per distinguere fra «loro» (il passato) e «noi» (oggi). Abbiamo la tendenza a descrivere loro e le loro reazioni all’arte come se fossero incassati nella storia, e al contempo a attribuire a noi stessi una visione d’insieme che guarda dall’alto di quello che consideriamo il vertice della storia. L’opera d’arte sopravvissuta sembra dunque confermare la nostra posizione di superiorità. Lo scopo della sua sopravvivenza eravamo noi.
Si tratta di un’illusione. La storia non ammette esenzioni. La prima volta che ho visto l’opera di Grünewald ero ansioso di collocarla storicamente. Nel contesto della religione medievale, della peste, della medicina, del lazzaretto. Adesso sono stato costretto a collocare storicamente «me stesso».
In un periodo di fede rivoluzionaria ho visto un’opera d’arte sopravvissuta per testimoniare un’antica disperazione; in un periodo di difficoltà e sofferenza vedo la stessa opera aprire miracolosamente un esile varco in mezzo alla disperazione.
(Questo articolo è stato scritto da John Berger nel 1973, la traduzione italiana è di Maria Nadotti. Il testo è stato pubblicato nel volume Sul guardare, Bruno Mondadori, Milano 2003, traduzione di About Looking, Writers & Readers, Londra 1980)
John Berger, morto il 2 gennaio scorso ad Antony, a pochi chilometri da Parigi, era nato a Londra nel 1926. Abbandonati gli studi a sedici anni, aveva servito nell’esercito dal 1944 al 1946, per poi frequentare la Central School of Art e la Chelsea School of Art e insegnare disegno presso la Workers’ Educational Association dal 1948 al 1955. Convinto sostenitore del realismo nell’arte, nel 1951 aveva cominciato a collaborare con il «Tribune» di George Orwell, quindi con «New Statesman», rivelandosi presto un critico dell’arte affilato e trascinante. «È in gran parte l’interesse per l’arte che mi ha condotto alle mie convinzioni generali sul piano politico e sociale», scriverà nel 1953. «Non sono assolutamente io che trascino la politica nell’arte, è l’arte che mi ha trascinato nella politica». A meno di venticinque anni era passato dalla pittura alla scrittura, perché «eravamo al culmine della guerra fredda ed era urgente fare qualcosa nei riguardi della situazione terminale e disperata in cui era il mondo». Così, in un ritratto filmico diretto nel 2016 da Cordelia Dvorák, «John Berger or The Art of Looking» , ricorderà quella decisione cui è rimasto fedele tutta la vita.
Celebre per la sua opera variegata (racconti, poesie, sceneggiature cinematografiche, pièce teatrali, articoli giornalistici, inchieste sociali) e per l’ampiezza dei suoi interessi e dei campi disciplinari frequentati (arte, letteratura, storia, sociologia, filosofia, economia, scienze, fotografia, cinema, teatro, antropologia…), per John Berger nessun sapere era tale se non nell’intreccio con gli altri saperi, con l’uso critico, consapevole, vigilante che se ne riesce a fare, e soprattutto con l’esperienza concreta e la coscienza politica. Di sé diceva di considerarsi semplicemente uno storyteller, un narratore nel senso benjaminiano del termine, un traghettatore di storie. Per lui la scrittura di un romanzo o di un testo «critico» si differenziava solo per via del mezzo usato. Il Berger narratore produceva immagini, il Berger saggista le smontava, le accostava, le metteva in risonanza: due atti interpretativi ugualmente potenti, entrambi dettati da una volontà di chiarezza, da una precisa indisponibilità ad accodarsi alle idee ricevute senza tentare di capire come e quando esse si siano formate e a vantaggio e svantaggio di chi. La forte componente politica che attraversa l’intera opera bergeriana consiste proprio in questo desiderio di analizzare le cose nel loro farsi o, specularmente, la mutevolezza delle nostre percezioni, il nostro incessante diventare. Una posizione intellettuale permeata di speranza: solo se si coglie la natura di «manufatti» storici di cose, idee, sensazioni, si può lavorare alla loro trasformazione impegnandosi in atti dell’immaginazione e in azioni che ne accelerino il cambiamento.
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