Tre anni soltanto o poco più (dal 1959 al 1962) del percorso di Gianfranco Baruchello (Livorno, 1924-Roma, 2023; una delle figure più significative della ricerca artistica del nostro dopoguerra) ma tre anni fondativi per l’intero suo lavoro, sono al centro della mostra «Primo alfabeto», che MASSIMODECARLO gli dedica nei cento anni dalla nascita, dall’11 gennaio al 17 febbraio, nella sede milanese di viale Lombardia.
La mostra (curata da Carla Subrizi, compagna di vita e docente di Storia dell’arte alla Sapienza di Roma, e Maria Alicata, con Fondazione Baruchello) ruota intorno al dipinto del 1959-1962 che le dà il titolo, una grande carta montata su tela, realizzata con materiali eterodossi (come Baruchello, accanito sperimentatore, amava fare), in cui l’artista squaderna il suo personalissimo «alfabeto» di segni, formato da ideogrammi combinati variamente, secondo una sintassi nota a lui solo eppure significante per chiunque vi entri in contatto. Come accadeva nei dipinti parigini dell’ultimo Kandinskij e come accadrà nelle prime opere di Basquiat, si inseguono qui, interconnettendosi, forme astratte e segni biomorfi che evocano organi del corpo umano.
E se è vero, come nota Carla Subrizi, che in quegli stessi anni anche Jasper Johns, Piero Manzoni, Jannis Kounellis, sperimentavano nuovi alfabeti, «l’aspetto peculiare dell’alfabeto di Baruchello è che si riferisca al corpo e alla sfera affettiva. [...] Una anatomia che individua zone tra il fisico e lo psichico, tra l’organico e l’inorganico», dove tutto fa riferimento a stati emotivi («paura, errore, angoscia, necessità e desiderio») e prende corpo in forme che, decostruite e ricostruite dall’artista in composizioni sempre diverse, ritornano nelle altre opere esposte.
In mostra figurano lavori (come «Wishing them all very merry incarnations II», 1962) esposti nella sua prima personale, alla Tartaruga di Roma nel 1963, e molte sono le opere di grande formato, fino al gigantismo di «Grande Palomar», 1962, quattro metri di base, due di altezza. Oltre a tre sagome di legno dipinto con il minio, un materiale prediletto, che torna anche nei dipinti.
Alla pittura e scultura, sin dagli ultimi anni ’50, Baruchello aggiunge il cinema, l’installazione, le pratiche performative e poi, in modo personalissimo, la Land Art quando nel 1973 avvia il progetto «Agricola Cornelia Spa», un esperimento tra arte e agricoltura con cui sottrae alla speculazione edilizia vasti terreni appena fuori Roma. Moltissime, nel suo lungo percorso, le partecipazioni alle Biennali di Venezia, tra il 1976 e il 2013; due le presenze a documenta (1977, 2012) e innumerevoli le mostre museali, fino all’ultima impresa: il monumentale volume «Psicoenciclopedia possibile» edito nel 2020 dall’Istituto dell’Enciclopedia Italiana Treccani.
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