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Danny Rose e i global trotter

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Franco Fanelli

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Il primo posto assegnato ad Hans Ulrich Obrist nella classifica dei 100 personaggi più potenti nel mondo dell’arte pubblicata ogni anno dalla rivista «Artnews» ha quanto meno un significato simbolico. Oggi a conferire potenza ai protagonisti di un mondo in cui le opere si guardano e si comprano con le orecchie, sono l’indirizzario e i contatti di uno che è diventato famoso non per quello che ha scritto o dichiarato, ma per ciò che gli hanno detto gli altri nelle quasi 2.500 ore di interviste raccolte dal quarantottenne curatore svizzero prima di diventare direttore della Serpentine Gallery di Londra.

Le opinioni degli altri lo hanno reso autorevole; il know how lo rende oggi potente. Il re del sistema dell’arte del 2016 non ha dunque bisogno di elaborare teorie, inventare correnti, tanto meno di vendere, acquistare o creare opere e forse neppure di curare mostre. Del resto chi è oggi il curatore? Un agnostico operatore che amplifica, dando voce e spazio, a ciò che ormai prolifera spontaneamente, cresce e si afferma ovunque, in geografie sempre più globalizzate (e Obrist è un instancabile «global trotter»), senza neanche la necessità di troppe mediazioni e ricerche: è questo che noi oggi chiamiamo arte contemporanea.

Va da sé che la classifica dei «Power 100» è il riflesso di quanto avviene ai piani altissimi. Scendendo qualche gradino e aggirandosi nel mondo reale ci s’imbatte in situazioni che contraddicono quelle gerarchie. Ad esempio: sino a che punto i galleristi (ben 28 nella classifica, dai Wirth ad Almine Rech passando per i nostri De Carlo e i tre di Continua) sono così potenti? Ad Artissima e a Flashback, le due maggiori fiere della novembrina settimana dell’arte a Torino, si manifestava ad esempio la nuova, spietata strategia nelle trattative che ormai affligge quasi tutti i mercanti meno potenti.

Sino a qualche anno fa la protervia dei collezionisti si fermava alla pretesa di sanguinosi sconti e di estenuanti ratealizzazioni; oggi si sta affermando una nuova famelica razza di piccoli grandi squali, quelli che magari dei valori estetici e storici non capiscono nulla, ma al contrario sanno tutto, addestrati da internet (consultano frenetici ArtPrice, Blouin Art Sales Index, ArtFacts, Mutual Art, Artnet, e ormai si parla di affidarsi agli algoritmi per andare sul sicuro) e dal continuo peregrinare fieristico, sui prezzi: infatti, ci confermava desolato più di un gallerista, ora non li chiedono neanche, perché pretendono di «farli» loro, aprendo la trattativa partendo dalla loro offerta.

Categoria già depressa anche dal sistema feudale che regola le loro gerarchie, i galleristi italiani hanno ormai altre due specie da cui, paradossalmente, guardarsi per non essere del tutto schiacciati: da un lato, s’è detto, i collezionisti 3.0; dall’altro, gli artisti più o meno quotati e richiesti, che li trattano come dei «Broadway» Danny Rose, lo sfigatissimo manager del mondo dello spettacolo interpretato da Woody Allen. «Ho fatto Artissima, ho investito 20mila euro tra stand, viaggi, albergo, trasporti e cene di lavoro e per di più ho avuto la bella idea di presentare uno stand monografico di XY», raccontava uno di loro. «Come faccio a dirgli che non ho ancora venduto niente? Finisce che mi toccherà comprargli un pezzo».

Franco Fanelli, 05 dicembre 2016 | © Riproduzione riservata

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