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Da minimalista a barocco

Franco Fanelli

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«Quando mi chiedono perché ho smesso di creare i miei “black painting” per passare al colore, rispondo che è come chiedere alla Kodak perché ha smesso di produrre le pellicole tradizionali», dice Frank Stella.

In effetti ciò che colpisce il visitatore della retrospettiva dedicata al 79enne artista americano dal Whitney Museum dal 30 ottobre al 7 febbraio, è il repentino passaggio dalla monocromia dei dipinti della fine degli anni Cinquanta all’esplosione di colori iniziata nel decennio successivo.
Arrivò a New York nel 1958, Stella (italoamericano di Boston) ricorda di aver capito che poteva diventare un pittore dopo aver notato sulla rivista «Vogue» un servizio in cui alcune modelle posavano davanti a un dipinto di Franz Kline: «Pensai: questo lo posso fare anch’io».
Ma il suo modo d’intendere la pittura andava in una direzione totalmente opposta a quella di Kline, di Pollock, di De Kooning e degli altri esponenti dell’Espressionismo astratto. Alla gestualità tesa a esaltare l’individualismo e l’unicità del fare pittura, Stella oppose la ripetitiva e concentrica geometria di dipinti a strisce nere di uguale larghezza separate dalle linee bianche della della tela non dipinta tra una striscia e l’altra. Una pittura impersonale (benché rigorosamente eseguita a mano) nella quale «ciò che vedi è ciò che vedi», dichiarò, attribuendo al dipinto il carattere di oggetto totalmente autonomo e autoreferenziale.

L’idea di saturare lo spazio pittorico gli era venuta osservando le bandiere americane di Jasper Johns, laddove l’oggetto dipinto corrisponde esattamente all’estensione del suo supporto.
L’attuale mostra allinea alcuni celebri esempi di questi «black painting»: tra gli altri, si vedono «Die Fahne hoch!» (un titolo desunto dall’inno nazionalsocialista), «The Marriage of Reason» e «Squalor I». Con Barnett Newman e Ad Reinhardt, Frank Stella si rendeva così protagonista di quella che è stata definitita l’«eclissi del modernismo», cioè la fine dell’arte come modello utopicamente capace di interagire con la vita quotidiana.

La stesura piatta di questa pittura chiusa in se stessa caratterizza anche la fase successiva, quella degli «Irregular Polygon» e della serie «Protractor», opere caratterizzate da tele sagomate dipinte con colori industriali: ancora una volta, la forma dipinta deve corrispondere ai limiti del suo supporto.
Di lì a poco Stella introduce nuovi materiali, come le vernici di alluminio e rame e più tardi, negli anni Settanta, il collage con carte, tessuti e legno applicati sulla tela, pervenendo a opere in rilievo, se non proprio ad autentiche sculture: il passaggio dal Minimalismo degli esordi al «massimalismo» era compiuto.

Negli anni Ottanta, la serie intitolata al Moby Dick di Melville esibisce un dinamismo «neobarocco» lontano anni luce dalla staticità dei primi dipinti: sono opere nelle quali s’intrecciano forme geometriche e architettoniche, sagomate in maniera da fuoriuscire dai confini tradizionalmente assegnati al quadro.
La produzione matura di Stella ha diviso la critica e le opinioni degli osservatori. Una sua scultura pubblica a Seul è stata pesantemente criticata, e un editore d’arte ha definito le creazioni di Stella come «la più brutta arte oggi possibile». Questo non impedisce la crescita delle sue quotazioni: è dello scorso anno il suo record, quando Christie’s a New York ha battuto una sua opera a 6,6 milioni di dollari.

L’attuale mostra, la terza retrospettiva dedicata a Stella da New York (la prima risale al 1970, al MoMA) è curata da Michael Auping, direttore del Modern Art Museum di Fort Worth, dove il prossimo anno la rassegna si trasferirà dal 17 aprile al 4 settembre.

Franco Fanelli, 24 settembre 2015 | © Riproduzione riservata

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