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Franco Fanelli
Leggi i suoi articoliTorino. Dopo la grande retrospettiva allestita presso l’Istituto Nazionale per la Grafica di Roma, è ora lo Spazio Don Chisciotte della Fondazione Bottari Lattes a riproporre sino al 22 aprile l’opera di Jean-Pierre Velly (1943-1990).
Rispetto alla mostra romana, quella attuale, curata da Vincenzo Gatti, si concentra esclusivamente sull’opera incisa, che del resto rappresentò per l’artista francese, ma dagli anni Settanta italiano d’adozione, un versante di primaria importanza. Tra gli ultimi grandi incisori capaci di esprimersi attraverso il linguaggio tradizionale del bulino (spesso abbinato all’acquaforte), Velly, rappresentato nella mostra torinese da una trentina di fogli provenienti dalla collezione Lattes, era fortemente radicato in un linguaggio di matrice nordica. Il segno e gli intrecci di Dürer e Schongauer si reincarnano in visioni apocalittiche, nelle quali il più nobile linguaggio calcografico ha come contraltare soggetti legati a una realtà moderna in disfacimento («Tas d’ordures», 1979), un mondo in decomposizione che tale si rivela negli intricati sviluppi delle metamordfosi cui sono sottoposti corpi umani. Non mancano, in mostra, fogli più sereni, come quello del 1968 in cui un nudo femminile si riflette in uno specchio che rccoglie uno scorcio di Roma, sullo sfondo di Trinità dei Monti, nei pressi di Villa Medici dove il giovane artista in quel periodo soggiornava dopo aver vinto il Grand Prix de Rome conferito dall’Accademia di Francia.
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Jean-Pierre Velly, Trinità dei Monti, 1968
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