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Mai come in questo momento orribile di guerre e di atrocità, una mostra come «Finché non saremo libere», che pure fotografa una realtà annosa, incancrenita, appare bruciante nella sua attualità. Tratta infatti di violenza, e della violenza sulle donne in particolare, e più ancora, in un focus speciale, della violenza perpetrata sulle donne in Iran, dove alla morte di Jina Mahsa Amini, 22 anni (cui il Parlamento europeo ha di recente assegnato, insieme al movimento «Donna, vita e libertà», il Premio Sacharov 2023 per la libertà di pensiero), massacrata nel 2022 dalla Polizia morale del regime, si è aggiunto nei giorni scorsi, dopo una lunghissima agonia, il decesso di Armita Geravand, 16 anni. La loro colpa? Indossare «scorrettamente» il velo.
Il titolo della mostra, curata da Ilaria Bernardi e promossa da Comune e Fondazione Brescia Musei con Associazione Genesi e Festival della Pace per il Museo di Santa Giulia (dove è visibile dall’11 novembre al 28 gennaio 2024), è una parafrasi di «Finché non saremo liberi. Iran. La mia lotta per i diritti umani» il libro di Shirin Ebadi, avvocatessa e pacifista iraniana esule dal 2009, che nel 2003 è stata la prima donna musulmana Premio Nobel per la Pace. E dopo di lei, a breve, sarà la volta di Narges Mohammadi, attivista iraniana e vicepresidente del «Centro per la difesa dei Diritti Umani», in carcere dal 2016, insignita del Premio Nobel per la Pace 2023.
Dal 2019, quando presentò le opere dal carcere dell’artista e attivista turca Zehra Doğan, poi i lavori del dissidente cinese Badiucao nel 2021, e quelli dell’attivista russa Victoria Lomasko nel 2022, il Museo di Santa Giulia segue infatti anche una linea di ricerca tesa a esplorare le aree più critiche del mondo attraverso lo sguardo dei loro artisti che non si piegano alla violenza dei regimi in cui vivono, e lo stesso fa, attraverso il suo Progetto Genesi, curato da Ilaria Bernardi, l’Associazione Genesi, fondata da Letizia Moratti.
Ed è proprio dalla collezione dell’Associazione Genesi che vengono le opere esposte qui, realizzate da donne artiste di aree diverse del mondo. Tutte fuorché una, la videoinstallazione «Becoming» (2015) che apre il percorso, opera dell’unico uomo in mostra, l’iraniano Morteza Ahmadvand, che qui riflette sul tema della possibile convivenza tra culture. Dopo il suo video, due lavori delle grandi artiste iraniane Shirin Neshat e Soudeh Davoud aprono la strada alle sezioni successive, dedicate a due nomi storici del Paese, Farideh Lashai (1944-2013) e Sonia Balassanian (1942) che, benché note nel mondo per la qualità della loro ricerca, non hanno mai avuto delle personali in Italia. Infine, la giovane connazionale Zoya Shokoohi, artista, performer e ricercatrice che in una residenza di Fondazione Brescia Musei ha realizzato l’installazione finale della mostra. Nel catalogo (Skira) a cura di Ilaria Bernardi, testi di Omar Kholeif, di Delshad Marsous (Associazione Maanà-Associazione della Diaspora Iraniana) e della stessa Zoya Shokoohi.


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