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Vogliono riscrivere la storia del Modernismo

Una nuova generazione di curatori e mecenati vuole cambiare i canoni dell’arte. Dal MoMA alla Tate Modern, dagli Stati Uniti all’Europa, cresce l’attenzione per realtà finora eccentriche e «marginali»

Jane Morris

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Anche se l’impressione è di assistere a un’inversione di tendenza nei processi di globalizzazione, i maggiori musei vanno avanti con i loro sforzi per internazionalizzare la storia dell’arte.

Recentemente, il MoMA di New York ha annunciato una donazione di più di 100 opere dall’America Latina che modificherà l’equilibrio delle sue collezioni (cfr. n. 369, nov. ’16, p. 4). Nel frattempo, la Haus der Kunst di Monaco di Baviera presenta una delle più importanti rivisitazioni del periodo postbellico. «Siamo ormai abituati a considerare la storia del dopoguerra attraverso il punto di vista americano ed europeo, spiega Okwui Enwezor, direttore della Haus der Kunst. Ma il punto di vista sta cambiando». La mostra «Postwar: Art Between the Pacific and the Atlantic, 1945 to 1965» (fino al 26 marzo) considera le conseguenze sull’arte delle trasformazioni geopolitiche seguite alla seconda guerra mondiale, dagli scontri per l’indipendenza dell’Africa alle divisioni del subcontinente indiano.

Musei come la Tate Modern di Londra, il Centre Pompidou di Parigi, il Guggenheim di New York e il Lacma di Los Angeles stanno inoltre ampliando le loro collezioni di arte moderna, per arricchirle di opere da Asia, Africa, Europa dell’Est e oltre. In questo processo la visione finora accettata della storia dell’arte moderna si sta modificando.

I curatori individuano la nascita della necessità di rivedere i canoni dell’arte già negli anni ’90, dopo il crollo del muro di Berlino, delle dittature in Argentina e Brasile e lo sviluppo di internet e dei viaggi low cost. Oggi i musei investono risorse senza precedenti in questo senso, in parte grazie a ricchi mecenati come le collezioniste d’arte latinoamericane Patricia Phelps de Cisneros e Pamela Joyner, la cui missione dichiarata è quella di portare gli artisti astratti afroamericani all’interno dei musei.

Riallestimenti completi L’installazione inaugurale della Switch House, la nuova sezione della Tate Modern che ha aperto a giugno, è uno degli esempi più eclatanti di questo approccio. I curatori hanno diviso la collezione in sezioni tematiche, con una linea temporale molto allentata ma con grande attenzione alle geografie. La scultura «Equivalent VIII» (1971) di Carl Andre, ad esempio, è esposta accanto a opere degli anni ’90 e del primo decennio del 2000 dell’artista cinese Liu Leirner (tutte con riferimenti al Minimalismo e all’architettura), invece che accanto ai suoi «colleghi» minimalisti americani. Frances Morris, direttrice della Tate Modern, ha detto che la decisione iniziale di acquistare opere di artisti contemporanei da tutto il mondo «non è stata una vera e propria decisione, abbiamo semplicemente iniziato a comprare». Ma con il procedere del progetto di ampliamento, i curatori hanno anche iniziato a riconsiderare l’arte delle generazioni precedenti. «Abbiamo cominciato a capire che, se volevamo ripensare la storia era strano farlo solo con una parte di essa», spiega Morris. In un certo senso, la Tate Modern ha migliorato le cose, arricchendo una collezione disomogenea di arte dall’Europa occidentale e dagli Stati Uniti che non poteva essere paragonata a quelle del Pompidou o del MoMA. I migliori esempi cubisti ed espressionisti astratti restano fuori portata, ma le opere importanti di altre correnti e regioni lo sono di più. «Abbiamo ad esempio un importante progetto di ricerca che collega Giappone, Europa dell’Est e America Latina attraverso la cornice del Bauhaus», ci confida Morris. Per poter dare il via a questa strategia, è stato necessario allestire speciali comitati per le acquisizioni, prima nell’arte americana e poi nell’Asia del Pacifico, in Medio Oriente, Africa, Asia del Sud, Russia ed Europa Orientale. Morris lo descrive come un processo in tre fasi: assicurarsi l’aiuto dei collezionisti con forti legami con le diverse aree geografiche, stabilire dei network curatoriali, che spesso collaborano con curatori aggiunti nei diversi Paesi, e incontrare gli artisti.





Perdita di memoria A differenza della Tate, la sfida del MoMA è quella di integrare nuove narrative in una superlativa collezione di arte europea e americana. Ironia della sorte, l’istituzione di New York è stata uno dei primi sostenitori del Modernismo globale. Durante il mandato del suo primo direttore Alfred Barr, «l’ampiezza geografica e tematica era molto maggiore di quanto la versione stereotipata della nostra storia oggi non faccia vedere», spiega Ann Temkin, chief curator di pittura e scultura del museo. Fino agli anni ’50 il MoMA comprava spesso opere latinoamericane, indiane, polacche e giapponesi. «Un focus che è andato perduto nella seconda metà del XX secolo e anche dalla memoria collettiva», aggiunge Temkin. Di recente il MoMA è tornato alle sue radici internazionali, con grandi mostre sull’avanguardia giapponese, latinoamericana e dell’Europa dell’Est. A dicembre ha riunito 300 opere in una mostra sulla nascita dell’Avanguardia russa (fino al 12 marzo). Dietro le quinte, l’investimento più consistente è stato C-Map, un’iniziativa di ricerca focalizzata su arte da Asia, Europa orientale e America Latina che coinvolge 50 membri dello staff. «Il museo ha investito tempo e denaro nella nostra formazione», dice Temkin. A differenza di Tate e Guggenheim, il MoMA si rivolge soltanto occasionalmente a specialisti esterni, come Luis Pérez-Oramas il cui ruolo di curatore dell’arte latinoamericana e caraibica è stato finanziato dalla collezionista Estrellita Brodsky, a testimonianza del coinvolgimento dei mecenati in queste iniziative. «Facciamo parte di una cerchia più vasta di storici dell’arte che hanno capito come le narrative lineari che andavano bene per le generazioni precedenti oggi non ci soddisfano più”, spiega Temkin.





Going local Il direttore del Lacma Michael Govan spiega che il pubblico locale è stato un importante elemento trainante nello sforzo del museo per diversificare la sua collezione. «Negli anni ’60-’80 eravamo un museo locale e le nostre prime mostre furono dedicate ad artisti locali come Robert Irwin e Ken Price. Con la crescita e la diversificazione di Los Angeles abbiamo cercato di tenerci al passo». Riflettendo sulla numerosa popolazione ispanica della città, il museo ha messo a punto un programma importante dedicato all’arte americana e latina. Ora l’enfasi è anche su quella coreana e cinese (in California vive la più grande comunità coreana-americana e sino-americana del Paese). Nel 2019 il Lacma presenterà la prima rassegna su 2mila anni di calligrafia coreana fuori dalla Corea. Naturalmente non tutti i musei stanno seguendo questa strada (il San Francisco Museum of Modern Art ha riaperto a maggio con una mostra classica dei grandi nomi del Modernismo americano ed europeo) e i gusti del pubblico sono difficili da misurare. Eppure, in città diverse come Londra, New York e Los Angeles, sembra che i visitatori siano ricettivi a queste nuove proposte. Come saranno accettate nel resto dei due Paesi e del mondo resta una questione più complicata.

Jane Morris, 08 febbraio 2017 | © Riproduzione riservata

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