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Davide Landoni
Leggi i suoi articoliLa città eterna accoglie Urs Ficher (Zurigo, 1973), che a lungo è stato il maestro dell’effimero, tra sculture-candele destinate a sciogliersi e rielaborazioni delle pubblicità di Hollywood. Gagosian rinnova il rapporto di lunga data con l’artista, ospitando, fino al 22 novembre, la sua personale «After Nature». Questa volta al centro della sua analisi tra realtà, percezione e rappresentazione ci sono la polvere, una monumentale scultura femminile e un’installazione video dal semplice ma ingegnoso funzionamento.
Com’è nata questa mostra?
In modo piuttosto spontaneo. Si uniscono tre tipi di lavoro molto diversi e la maniera in cui si combinano non è stata premeditata. Ho lavorato sui dipinti, sul video e sulla scultura in maniera indipendente, poi una volta che ho visto lo spazio è arrivata l’intuizione su come combinarli.
Che percorso ne è scaturito?
Ho immaginato le sette stampe come varchi che aprissero degli sguardi sull’esterno; la superficie riflettente amplia lo spazio, mentre la stratificazione dei materiali genera un effetto di profondità che assorbe l’occhio e lo proietta in un altrove. Tali «finestre» possono essere intese come un’estensione delle vetrate che nell’ovale della gallerie occupano il lato opposto. Si crea una sorta di corrispondenza. Al contrario, la scultura centrale evoca un ambiente più intimo, interno. Per via della figura umana, ma anche per il fatto che dimensioni e materiale dell’opera consentono di sedercisi sopra, anche sdraiarsi volendo. E in tutto questo si aggira lo spettatore.
Il video che ruolo ha?
Forse serve proprio allo spettatore, a fargli prendere consapevolezza di sé. Una telecamera riprende ciò che succede in galleria, ma lo schermo restituisce l’immagine circa due secondi più tardi. Sembra uno scarto minimo, ma è sufficiente a destabilizzare chi guarda. Rivedersi, con questo ritardo, crea un effetto «terza persona» che cambia radicalmente la prospettiva.
Ritorniamo ai varchi. Come sono realizzati?
Il punto di partenza è piuttosto particolare, trattandosi di polvere. Nello specifico, la polvere di casa mia. L’ho aspirata e poi distribuita, casualmente, sulla superficie. L’eco, se vogliamo, è Dada. Poi l’ho fotografata e ne ho ricavato un adesivo acrilico, che ho sovrapposto in diversi strati e compattato con pigmenti, resina e inchiostro. Il risultato sono dei pannelli in cui la concentrazione di polvere cresce gradualmente, generando composizioni sempre più fitte. Mi ricordano delle nuvole, il cielo, forse l’universo con le sue costellazioni.
Qualcosa di estremamente terreno e residuale finisce per suggerire il cosmo. Buffo, no?
Può essere un’operazione strana, sì. Ma in fondo la realtà, quando è vista da vicino, perde così tanto i suoi contorni da smarrire le fattezze, e anche ciò che c’è di più concreto finisce nell’astratto. Forse è una questione di micro e macro, di prospettive.
La prospettiva di «Body» è sicuramente ampia, aumentata.
Il punto di partenza è un’iconografia classica, se vogliamo. Di una donna sdraiata, che poggia un gomito e una gamba. Ma le dimensioni monumentali, il materiale, che è un tessuto che allude al camouflage, e la possibilità di sedercisi sopra la portano lontano dalle fattezze e dall’interpretazione di un’opera storica.
Un pensiero a Paolina Borghese, vista la vicinanza, esiste?
Sì, forse c’è un riferimento, ma come ci sono riferimenti a tanti altri esempi nella storia dell’arte, e da altri Paesi. L’aspetto che mi interessava di più era forse quello della linea, della silhouette, di una resa del corpo umano simile a quella di Henry Moore, per esempio.
Ci sono altre citazioni, ispirazioni dichiarate?
I nuovi dipinti sulla polvere richiamano la fotografia di Man Ray, «Dust Breeding» (1920), che cattura l’accumulo di sporcizia sulla superficie dell’opera di Marcel Duchamp «The Bride Stripped Bare by Her Bachelors, Even (The Large Glass)» (1915-23). Tornando a «Body», la scultura mi ricorda anche «She-A Cathedral», il progetto del 1966 di Niki de Saint Phalle, Jean Tinguely, P.O. Ultvedt e Pontus Hultén al Moderna Museet di Stoccolma, in cui la figura cava di una donna incinta, in scala architettonica, conteneva altre opere d’arte e progetti. Infine, il video rende omaggio a «Time Delay Room» (1974) di Dan Graham, in cui un sistema a circuito chiuso di telecamere, monitor e specchi in due stanze comunicanti registra un ritardo di otto secondi che genera una condizione di autosorveglianza controllata.
È a quest’ultima opera che si riferisce in particolare il titolo della mostra, «After Nature», alludendo a un futuro permeato da digitale?
No, no, non c’è questo intento. Anzi, il video vuole riflettere proprio sul nostro carattere umano, sul presente continuo in cui esistiamo e la labilità della nostra memoria. «After Nature» si riferisce più alla formula usata nella storia dell’arte per indicare la relazione stilistica e cronologica con un grande maestro. In questo caso è la natura, il luogo dove le mie opere nascono e dove vorrei, in qualche modo, facessero ritorno.