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Giovanni Frangi

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Giovanni Frangi

Un fiume visto dalla riva, al calare della notte. Lo scorrere dell’orizzonte di Giovanni Frangi

Per la prima volta a Milano esposta la monumentale installazione di Giovanni Frangi, Nobu at Elba Redux. A vent’anni dalla sua prima apparizione l’opera dell’artista milanese si propone in un nuovo allestimento a Palazzo Citterio

Quattro tele monumentali che diventano le pareti di una stanza e che rappresentano un fiume visto dalla riva, al calare della notte. Nello spazio alcune sculture di gomma piuma bruciata a mo’ di tronchi dormienti. La luce che cala e gli occhi che si abituano al buio. Accadeva nel 2004 nella Scuderia Grande di Villa Panza a Varese con l’opera di Giovanni Frangi, in un progetto ambizioso curato da Giovanni Agosti voluto dallo stesso conte Panza. Si intitolava “Nobu at Elba”. Un nome enigmatico che sa di Giappone e di Germania. Ora quella stessa installazione, dopo vent’anni, è tornata a prendere vita a Milano, nella Sala Stirling di Palazzo Citterio (fino al 18 gennaio). Il titolo è diventato “Nobu at Elba Redux”, con quella parola latina aggiunta che sta per “di nuovo”. Ma se per chi l’aveva vista a Varese all’epoca è confrontarsi con la propria memoria, e per chi non c’era l’occasione di scoprire un momento decisivo della carriera del pittore milanese, per l’artista è diventato un avventuroso confronto con se stesso.

Da che esigenza nasce l’idea di riproporre un lavoro realizzato vent’anni fa?

Nobu at Elba è il lavoro più impegnativo che ho mai realizzato. Avevo avuto altre occasioni per poterlo rimontare, ma c’erano sempre delle difficoltà. Ma l’idea che sta alla base, nella sua semplicità, è un’idea molto forte. Di questo sono sempre stato convinto e ne sono convinto ora che l’ho rivisto dopo tutti questi anni. Per me in qualche modo resta sempre una lezione quella di cercare di semplificare per essere più diretti. Con Giovanni Agosti abbiamo cominciato a lavorare per la Sala Stirling circa un anno fa, quando Angelo Crespi ci ha chiesto di pensare a un progetto. Abbiamo subito pensato che quella fosse la volta buona per riprenderlo in mano. Come rimontarlo in quella sala con quella colonna centrale di cemento così impegnativa? Dove potevamo piazzarlo? Ci stava? Non ci stava? Non volevamo modificare nulla del progetto del 2004.

Che tipo di esperienza è per un artista fare i conti con se stesso più giovane?

Molto più complicato di quanto immaginassi. Avevo dato tutto un po’ per scontato. Pensavo che fosse solo una questione tecnica che poteva essere tenuta sotto controllo. Ma in realtà mi sono reso conto che era un lavoro che riguardava il tempo per più di una ragione. Il tempo che passa in una giornata con l’arrivo della notte. Non solo per la luce che cambia all’interno dell’opera. Il tempo che è passato dal 2004 a oggi. Cosa abbiamo fatto. Cosa avremmo potuto fare. Cosa rimane guardandosi indietro. Come siamo cambiati. Non lo avevo mai fatto prima. Avevo sempre concepito il mio lavoro pensando all’oggi. Avevo sempre pensato alle mie mostre come a uno sguardo in avanti. Ma alla fine bisogna pure fare i conti col passato. Cosa resterà e cosa no…

Hai deciso di riproporre la locandina circense del 2004. È solo un vezzo?

Nel 2004 volevamo sdrammatizzare e rendere tutto più leggero per un lavoro in un luogo così importante. Ci avevamo ragionato a lungo ed è saltata fuori questa idea di prendere ispirazione dalla grafica del circo Togni. Vedevo sempre i loro poster sotto il cavalcavia all’uscita dell’autostrada di Milano-Certosa. Grazie al tocco magico di Ginette Caron, una grafica canadese nostra amica da sempre, abbiamo fatto il resto. E alla fine faceva proprio parte dell’opera. Qualcuno non capì e si sbagliava. Allora erano tempi diversi e avevo riempito Milano con quei manifesti grandi due metri per un metro e mezzo. Era un gioco. Andiamo al circo a vedere la notte che arriva.

Hai detto che volevate riprodurre il progetto originale così com’era. Eppure Sala Stirling è molto diversa dalla Scuderia Grande di Villa Panza. Ci siete riusciti?

Con l’architetto Francesco Librizzi abbiamo immaginato diverse soluzioni prima di trovare quella giusta. Alla fine mi è sembrata geniale. Un’enorme parete di alluminio, uguale a quel materiale che si usa nei cantieri e nelle strade, che divide l’ambiente in modo brutale e che permette di creare due spazi, anzi tre, totalmente diversi tra loro. Sembra in un certo senso che sia sempre stato così. Un’immagine così forte che troviamo di fronte entrando, poi i due ingressi per la stanza di Nobu con una storia tutta diversa, e l’altra a sinistra lunga e stretta con le 132 immagini dell’Album, un racconto con varie divagazioni della storia del progetto iniziato nel  2001 fino al 2004. Un perfetto cortocircuito.

E per la luce come avete fatto?

È stata costruita una sorta di scatola di tela bianca sopra il lavoro, con un celino che copre tutto l’ambiente, in cui la luce che cambia in maniera costante si riflette dall’alto in modo uniforme. Tutta l’organizzazione di Brera è stata fantastica, non mi era mai capitato di avere un’assistenza così premurosa sotto ogni aspetto. L’idea del cambiamento della luce nasceva in realtà dal capannone di Casale Litta, dove avevo lavorato allora, e dove le lampade si accendevano lentamente al mattino quando arrivavo. Non c’erano finestre, così ogni giorno per tre, quattro mesi. Per questo abbiamo pensato di trasferire lo stesso effetto. A maggior ragione a Villa Panza. Qui a Milano, nella Sala Stirling, il passaggio dal buio alla luce rispetto a Varese è meno morbido, lo stacco è più secco, in un certo senso è meno silvano e più spaziale.

Dopo vent’anni non solo è cambiata la tua pittura, ma anche il pubblico. Che reazioni hai visto?

Mi sembra che funzioni ancora. Meglio non potevo immaginare. Mi sono reso conto però come in vent’anni la nostra capacità di concentrazione sia radicalmente cambiata. Abbiamo sempre bisogno di immagini nuove di fronte agli occhi. Facciamo fatica a fermarci. Questo è un dato di fatto, un cambiamento radicale, ma certamente anche un pericolo. Credo che sia meglio delle volte fermarsi un attimo. Ad esempio per Nobu è meglio stare in quell’ambiente da soli, senza nessuno, senza sguardi, senza distrazioni. In silenzio per qualche minuto. Guardare come tutto rapidamente cambi col variare della luce. E come delle volte la luce tenue permette di vedere qualcosa che si perde con la luce piena.

Il viaggio di Nobu at Elba finisce a Palazzo Citterio? 

Sicuramente no. Per il momento sta lì fino al 18 gennaio.

Luca Fiore, 18 novembre 2025 | © Riproduzione riservata

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