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Maurita Cardone
Leggi i suoi articoliNel Nord di Israele, tra Nazareth e Haifa, a Umm al-Fahm, città a prevalenza palestinese, c’è un luogo in cui l’arte si è assunta il compito di raccontare la terra più contesa della storia e i suoi popoli. Nata nel 2024 come prima galleria d’arte araba di Israele, la Umm el-Fahem Gallery è diventata il primo museo d’arte araba ufficialmente riconosciuto dal Governo israeliano. Un percorso costellato di ostacoli politici, sociali ed economici che oggi il fondatore Said Abu Shakra, nel mezzo di uno dei capitoli più drammatici della lunga storia di questi territori, è deciso a proseguire, nel nome della speranza e del dialogo. Artista, prima che direttore, Shakra viene da una famiglia di artisti.
Che cosa l’ha motivata a creare la prima galleria d’arte araba in Israele?
Ho fondato la galleria a Umm al-Fahm una trentina di anni fa. A quel tempo non c’erano gallerie arabe in Israele. Se volevamo esporre la nostra arte dovevamo andare a Tel Aviv, e spesso venivamo inclusi solo in mostre a tema politico piuttosto che in rassegne professionali. Non volevo che la nostra arte fosse trattata solo come una dichiarazione politica. Così ho deciso di creare una galleria nella mia città.
Qual era l’idea alla base della galleria?
Per me non si trattava solo di parlare di problemi, ma di creare soluzioni. Volevo una piattaforma per il cambiamento: per la nostra comunità, per le relazioni tra arabi ed ebrei e per far sì che gli artisti palestinesi fossero visti professionalmente.
Come descriverebbe la comunità di Umm al-Fahm e il suo rapporto con la galleria?
Umm al-Fahm conta circa 60mila abitanti, quasi tutti musulmani. È sempre stata una città povera. A causa di queste difficoltà, col tempo è diventata più religiosa. Quando ho fondato la galleria il movimento islamico era alla guida del Comune. Non mi hanno sostenuto, ma nemmeno fermato. All’inizio è stato difficile convincere la gente del posto a venire; molti si vergognavano, pensando che l’arte non facesse per loro. Ma ho insistito: questa è la mia gente, sono nato qui, condivido le loro lotte. Dovevo metterli in contatto con la galleria.
Come ci è riuscito?
Abbiamo avviato progetti comunitari: laboratori di ceramica per donne, progetti di storia orale con gli anziani e programmi artistici per bambini. Lentamente, la galleria è diventata parte della vita delle persone. Oggi, per molti che sono venuti qui per la prima volta da bambini, l’arte è parte delle loro memorie d’infanzia.
Come si parla di storia in un luogo in cui la realtà storica è così controversa?
Ho ritenuto essenziale preservare la nostra storia e creare un archivio della memoria storica palestinese. Per me si tratta di collegare passato, presente e futuro. Quando ho creato l’archivio, sapevo che avrebbe potuto essere controverso. Alcuni dei miei amici ebrei preferivano rimanere ancorati a un’unica narrazione: che gli ebrei siano venuti in una terra deserta. Io volevo dimostrare che qui esistono due popoli ed entrambi hanno una storia. Raccontando storie personali, della mia infanzia, della mia famiglia, ho scoperto che le persone rispondevano con empatia. Non si tratta di politica, ma di memoria umana.
La galleria è recentemente diventata un museo riconosciuto dal Governo d’Israele. Che cosa cambia?
Diventare un museo è un grande onore, ma comporta anche delle sfide. Da un lato, ci offre un riconoscimento e ci permette di costruire una collezione permanente e un’infrastruttura professionale. Dall’altro, temiamo che un giorno il Governo possa farci pressione se non apprezza ciò che esponiamo. Finora non è successo, ma lo abbiamo visto con altre istituzioni culturali.
Che cosa esponete generalmente?
Il 70% degli artisti che esponiamo deve essere arabo, come richiesto dal fondo governativo, e il resto può essere ebraico o internazionale. La maggior parte della collezione è contemporanea, ma includiamo anche mestieri tradizionali come il ricamo.
Quale pubblico raggiungete oggi?
Prima della guerra in corso il pubblico ebraico veniva più regolarmente, ma oggi non viene più... Questo ci ha dato più spazio per concentrarci sulla comunità araba, soprattutto bambini e studenti. Sono il nostro pubblico principale e investiamo molto su di loro. Per molti il loro primo incontro con l’arte è stato proprio qui.
Qual è il possibile ruolo dell’arte nella situazione attuale?
L’arte deve essere sia protesta che connessione. Stiamo vivendo uno dei periodi più difficili che io ricordi. Il ruolo dell’arte è quello di fungere da specchio, mostrando alla società ciò che non vuole vedere. L’arte può esprimere dolore, ma anche creare empatia e unire le persone. Per me, la speranza è essenziale. Mi rifiuto di cedere alla disperazione. Dobbiamo usare l’arte per costruire ponti, preservare la memoria e creare una visione per il futuro, affinché i nostri figli e nipoti ereditino qualcosa di meglio.

Said Abu Shakra. © Yigal Pardo
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