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Nicola Davide Angerame
Leggi i suoi articoliNelle sue due mostre personali «codipendenti», «Terrone» alla Gam di Milano (fino al 6 luglio) e «The Rainbow Body» a Londra, da Sadie Coles HQ (fino al 2 agosto), Ugo Rondinone (classe 1964), tra i protagonisti dell’arte contemporanea che più hanno saputo coniugare spiritualità e forma, riflette sul rapporto tra corpo e spiritualità, materia e simbolo, natura e artificio. In questa conversazione approfondita con l’artista svizzero di origini lucane, ma cittadino di New York dal 1997, ripercorriamo la genesi di alcune delle sue opere più evocative: dai corpi arcobaleno alle pietre monumentali e il dialogo profondo con la poesia di John Giorno, il pensiero buddhista e le sue radici familiari in Basilicata. Un’arte che sfida lo spettacolo e invita al silenzio, all’attenzione, alla magia del tempo sospeso.
Nel progetto «The Rainbow Body», esposto da Sadie Coles, i corpi nudi sono immersi in un ambiente fluorescente e avvolgente, fatto di arcobaleni che vibrano sulle pareti, sul pavimento e sul soffitto. Ogni figura si trasforma così in soggetto e palcoscenico al tempo stesso. Come ha concepito il dialogo tra ogni singolo corpo e il suo «paesaggio» cromatico? E nell’abbracciare la nozione buddhista di rainbow body (la trascendenza del fisico) sta esplorando una dissoluzione poetica dell’io, oppure la sua amplificazione?
Nel 2009 ho realizzato 14 sculture raffiguranti danzatori nel pieno della loro forma fisica, colti in posizioni passive e introspettive. Le figure erano in cera mista a terra proveniente da tutti e sette i continenti. L’uso della terra ha un valore simbolico: è mitologicamente carico e rimanda al legame profondo tra esseri umani e natura. Le stesse forme corporee frammentate sono state impiegate per le 14 sculture di «The Rainbow Body». I nudi realizzati con la terra simboleggiano l’attaccamento dell’essere umano al mondo; i nudi arcobaleno, al contrario, rappresentano il distacco dal mondo e l’ascesa verso dimensioni spirituali. Nella concezione buddhista tibetana, il massimo traguardo spirituale è il conseguimento del «rainbow body», stato in cui, dopo la morte, il corpo si dissolve in colori prismatici. Le figure appaiono a riposo; il linguaggio del corpo comunica rilassamento e introspezione. La loro nudità le rende vulnerabili, e questa vulnerabilità è enfatizzata dalla fragilità della cera. Le sculture non sono realizzate da un unico stampo, ma composte in diverse parti, anche fino a 20 sezioni. I corpi sono fratturati dai sei colori dell’arcobaleno, gli stessi applicati ad ogni superficie della galleria. La nudità esposta dei corpi arcobaleno li mimetizza nello spazio, fondendoli nel paesaggio cromatico.
Le se mostre in corso a Londra e Milano sembrano approfondire un dialogo silenzioso ma luminoso tra forma e visione interiore. Quale necessità emotiva o poetica ha guidato la creazione di queste opere?
Entrambe le mostre si fondano su simboli comuni: a Londra sono l’arcobaleno, il nudo, l’orologio e la candela; a Milano sono gli ulivi, gli attrezzi contadini e i nudi. Insieme, questi elementi richiamano le mitologie classiche del paesaggio, della natura morta e del nudo. Mentre la mostra londinese è intrisa di colore e artificialità, quella milanese procede in direzione opposta. I tre gruppi di opere presentati a Milano, ulivi, attrezzi contadini, nudi di terra, fanno riferimento, come suggerisce il titolo della mostra, «Terrone», a un amore per la terra e alla sua materialità. Le due mostre si completano a vicenda e sono codipendenti. Nel mio lavoro c’è una forma di ingenuità, che crede ancora nella magia e nello stupore. Mi piace che l’arte sia semplice, quasi «stupida». Uso motivi arcaici e primordiali. Come scrive Jung nel Libro Rosso, simboli come Sole e Luna, cerchi, croci e quadrati sono comuni a tutte le culture. Esiste una coscienza collettiva che non si può spiegare razionalmente, ma che tutti possono comprendere. È questa la forza simbolica con cui lavoro. Il paesaggio, il nudo, la natura morta, l’arcobaleno, l’orologio… sono un alfabeto umano a cui tutti siamo connessi. Parlare di magia è, certo, un’interpretazione. Ma credo che ogni opera abbia una magia che si dispiega oltre le parole.
La poesia di John Giorno continua a risuonare nel suo lavoro come un sottofondo spirituale. In che modo la voce di Giorno si riflette ancora oggi nel suo linguaggio scultoreo? E quale aspetto della sua eredità sente più urgente incarnare o risvegliare?
La mia vita con John è stata una comunione felice durata 21anni. Eravamo fonte d’ispirazione reciproca: lui era affascinato dall’arte tanto quanto io lo ero dalla poesia. Ci siamo incontrati nel 1997, poche settimane dopo il mio arrivo a New York, a una performance nella St. Mark’s Church. Da allora siamo stati compagni fino alla sua morte improvvisa, nell’ottobre del 2019. È stata una relazione splendida. Nel 2015, su invito di Jean de Loisy, ho curato al Palais de Tokyo la mostra «Ugo Rondinone: I ♥︎ John Giorno», un progetto ampio e articolato dedicato alla vita e all’opera di John: poeta, artista, attivista e musa. In seguito, nel 2017, in occasione del suo 80mo compleanno, la mostra è stata riproposta in 13 istituzioni non profit di New York. Includeva opere sue e opere ispirate da lui. L’idea della mostra nacque da una riflessione su un’esposizione su Cocteau vista al Centre Pompidou, in cui gli archivi erano esposti al buio e inaccessibili. Parlando con John, ci siamo detti che doveva esserci un modo migliore per esporre archivi letterari. Ho assunto due archivisti che per quattro anni hanno catalogato 12mila documenti. Li ho organizzati in 80 volumi, uno per ogni anno della vita di John, riproducendo i materiali in facsimile. «I ♥︎ John Giorno» è stato un esperimento unico, artistico e curatoriale. La sua portata e il suo carattere ibrido testimoniano l’ampiezza, la varietà e la longevità del lavoro di John.

Ugo Rondinone, «Rainbow Clock», 2024
Nella mostra alla Gam di Milano avverto una risonanza con Medardo Rosso, non solo nella vibrazione della materia, ma nell’evanescenza della presenza. In che modo si relaziona con la sua dissoluzione della forma?
Quando ho creato i nudi in cera e terra, Medardo Rosso non era nei miei pensieri. Ma certo, vedere i miei nudi accanto alle sue opere genera un dialogo inevitabile sulla natura umana, sulla sua fragilità effimera.
La pietra è da tempo un materiale centrale nella sua pratica. Che cosa le consente di esprimere rispetto ad altri materiali? E come negozia la sua silenziosa primitività con l’intensità emotiva del colore?
La pietra è l’ossatura della terra, ciò che la tiene insieme, fisicamente e simbolicamente. L’opera «Seven Magic Mountains», con il suo aspetto moderno e artificiale, è stata una risposta diretta alle figure arcaiche di «Human Nature» (realizzata nel 2013 per il Rockefeller Center a New York, Ndr). Nel 2014, il Nevada Museum e l’Art Production Fund mi hanno chiesto un’opera da collocare lungo la Interstate 15, tra Las Vegas e Los Angeles. Il sito si trovava tra due luoghi storici: il Jean Dry Lake, dove Jean Tinguely fece il suo «The End of the World» nel 1962, e The Last Spike, il punto terminale della ferrovia nel 1905. La storia del luogo e della Land Art mi hanno ispirato. Ho fede nella pietra come materiale: per la sua bellezza innata, la sua energia, la sua capacità di condensare il tempo. È un contenitore magico, metafora del nostro rapporto mutevole con la natura e con noi stessi. La natura non è qualcosa di esterno a noi, ma intrinseca: le nostre società sono costrutti naturali. Dobbiamo andare oltre le identità religiose, etniche o razziali, per riscoprire una preoccupazione condivisa per la stessa terra.
Il colore nelle sue opere non è mai decorativo: è esistenziale. Qual è il suo processo nella scelta dei colori, e quale ruolo attribuisce loro nel modellare non solo le superfici, ma gli stati dell’essere?
Il mio lavoro si fonda sulla dualità, su opposti che si compenetrano. Il mio sito web è organizzato in «Night» e «Day»: nella prima ci sono opere in bianco e nero, o in materiali naturali come bronzo, alluminio e pietra; nella seconda, opere che utilizzano la ruota dei colori e lo spettro arcobaleno. Queste due polarità si sostengono a vicenda. Ciò è visibile in «Human Nature» al Rockefeller Center e in «Seven Magic Mountains», nel deserto del Nevada. In città ho lasciato la pietra al naturale; nel deserto l’ho dipinta con colori fosforescenti. Era un gioco di contrasti: Land Art in città e Pop Art in natura. Questo contrasto è la forza trainante del mio lavoro. In generale, m’interessa l’arte che organizza uno spazio di accumulazione indefinita di tempo, immagini e linguaggi in un luogo immobile. L’arte crea un sistema di gravità artificiale, affermando un proprio vuoto o abisso.
Le sue figure, dai clown ai nudi in piedi, sembrano sospese tra monumento e vulnerabilità. Come si è evoluto nel tempo il suo rapporto con il corpo umano? Che umanità cerca di rivelare?
Il mio interesse principale è esplorare l’incontro tra umano e natura, e i limiti della coscienza nel rappresentarlo. Spero che le mie opere riescano a scavalcare le costruzioni culturali e razionali che ci alienano, per celebrare visioni primordiali e mistiche della natura.
Le sue radici familiari la legano a Matera, una terra segnata dal tempo, dalla pietra e dal silenzio. Come parla questa geografia ancestrale nel suo lavoro?
La mia origine e l’ambiente in cui sono cresciuto mi hanno dato valori e prospettive visive su cui costruire. Sono nato a Brunnen, in Svizzera, sul Lago di Lucerna. I miei genitori emigrarono da Matera, città antichissima. Mio padre, muratore, arrivò in Svizzera nel 1959; mia madre, sarta, lo raggiunse nel 1963. Fino ai sette anni ho vissuto tra Matera e Brunnen: due scenari estremi, la città di pietra secca e incolore e il paesaggio fiabesco delle Alpi innevate. Questo contrasto ha formato il mio immaginario. Non si sfugge mai alle proprie radici: è da lì che tutto parte, ed è lì che continuo a trovare materiale per il mio lavoro.
In un’epoca dominata dalla velocità e dallo spettacolo, il suo lavoro continua a difendere lentezza, solitudine e interiorità. Considera questa scelta un atto di resistenza? E che tipo di rivoluzione interiore invita a compiere?
Poesia e arte implicano lentezza: nel linguaggio, nell’immagine. La lentezza permette di essere. La lentezza, a differenza della velocità, è incendiaria, non mi impone nulla, non mi strappa fuori dal mio tempo per trascinarmi nel suo, come fa invece la velocità. La poesia e l’arte rallentano e distendono le temporalità, in cui nulla è mai davvero concluso o terminato: tutto può ritornare o essere riattivato, e in cui passato, presente e futuro si intrecciano in un unico ciclo, proprio come accade con i simboli e le voci dei sogni. Come nei sogni, i simboli tendono alla condensazione, all’associazione libera e a una risonanza collettiva.

Una veduta della mostra «the rainbow body» di Ugo Rondinone da Sadie Coles HQ