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Un’opera del 2016 per «M Le Magazine du Monde» di Toiletpaper, il progetto creativo di Maurizio Cattelan e Pierpaolo Ferrari nato nel 2010

Courtesy Toiletpaper magazine

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Un’opera del 2016 per «M Le Magazine du Monde» di Toiletpaper, il progetto creativo di Maurizio Cattelan e Pierpaolo Ferrari nato nel 2010

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Toiletpaper: «Il nostro obiettivo? Fare ciò che nessuno si aspetta»

«Abbiamo cercato la non-arte, la non-moda, la non-pubblicità. E nel tentativo di sbagliare, abbiamo trovato qualcosa di originale», spiegano Maurizio Cattelan e Pierpaolo Ferrari che, 15 anni fa, hanno dato vita al loro progetto di enorme successo

Bartolomeo Pietromarchi

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Nato nel 2010 da una collaborazione per «W Magazine», Toiletpaper è il progetto editoriale e creativo di Maurizio Cattelan e Pierpaolo Ferrari. Insieme all’art director Micol Talso, lo studio ha saputo fondere arte, pubblicità, moda e design in una visione provocatoria e dal linguaggio fortemente riconoscibile. Dai progetti per brand come Kenzo, Nike, Lavazza e Mac Cosmetics, alle collezioni con Seletti e Gufram, fino alle copertine di «Vogue», «The New York Times Magazine», «Vanity Fair» e «Le Monde», e, ultimamente, anche le mostre nei musei, Toiletpaper è diventato un linguaggio visivo a sé, capace di abitare l’editoria, il design, la visual communication, il merchandising e gli spazi espositivi. Fino al 31 agosto è in corso al museo Fotografiska di Berlino la mostra «ToiletFotoPaperGrafiska». In questa intervista Maurizio Cattelan e Pierpaolo Ferrari rispondono insieme, a due voci. All’unisono. 

Partiamo dall’ultima mostra «Chromoterapia» appena conclusa a Roma, a Villa Medici. Mi sembra un modo per rileggere cento anni di fotografia a colori, attraverso gli sguardi di 19 autori per far emergere una linea estetica e un linguaggio che, basato sul colore, flirta con Surrealismo, Pop, Kitsch e Barocco. Un grande affresco di visioni con una sensibilità comune.
Sì, volevamo raccontare che Toiletpaper è una sorta di famiglia allargata. Per anni il nostro lavoro è stato praticamente ignorato e non capito, soprattutto in Italia. Questa mostra invece, con l’aiuto anche di Sam Stourdzé, che conosce profondamente il linguaggio e la storia della fotografia, dimostra come ci sia una linea nell’arte moderna che ricorre e riemerge in ogni epoca e che ha molte affinità con ciò che facciamo. È segno che esiste una vera affinità, una radice comune più che un’ispirazione.

Torniamo all’inizio: come funziona il sodalizio Cattelan-Ferrari e da dove è nato?
Tra noi i ruoli sono chiari: Pierpaolo è il fotografo, Maurizio ha una sensibilità critica fortissima. Maurizio ha spinto da subito sui colori forti, nati anche grazie alla stampa moderna; Pierpaolo ha una lunga e approfondita esperienza sulla costruzione dell’immagine. L’idea era semplice: fare delle foto per noi, per un magazine diverso, più sofisticato. Il metodo è forse la parte più bella: ci sentiamo in videochiamata, anche se abitiamo vicini, e ci scambiamo idee. Prima ogni giorno, ora un paio di volte a settimana. È una pausa divertente nella routine. Per Maurizio era una sfida, un rischio. All’inizio sembrava un progetto che poteva anche fallire. Ma volevamo solo avere un’idea e realizzarla, liberamente.

Quindi Toiletpaper è nato come uno spazio libero, non commerciale, di sperimentazione.
Esatto. Avere un’idea e realizzarla in tempi rapidi. Diverso da un’opera che richiede mesi o da una committenza piena di limiti.

Toiletpaper è un po’ come uno sketchbook.
Proprio così. L’abbiamo sempre visto come un progetto non artistico, per non confondere le cose. Forse è stata la nostra fortuna. Abbiamo cercato la non-arte, la non-moda, la non-pubblicità. E nel tentativo di sbagliare, abbiamo trovato qualcosa di originale.

Mi sembra che una cifra forte del vostro lavoro sia questa viralità che evita ogni etichetta, e vi permette di attraversare tanti mondi.
Verissimo. E poi Toiletpaper nasce in un momento in cui il web era pieno di blog. Prima c’era Permanent Food, di cui Toiletpaper è un po’ l’evoluzione. In quel progetto Maurizio rubava immagini, le raccoglieva e le metteva insieme. Qui invece le creiamo. E non c’è una vera narrazione tra un’immagine e l’altra. Ma è proprio vedendole insieme che nasce qualcosa, come un flusso di coscienza.

A proposito di questa libertà di riferimenti in cui vi riconoscete, com’è nato il vostro progetto legato al Radical design?
Da una collezione di pezzi di Radical design degli anni ’70. Molto sexy, ci ricordavano le nostre foto. Abbiamo anche recuperato dieci anni di «Playboy America», dal ’68 al ’78, perché lì si trovava proprio quel tipo di design dotato di un’estetica erotica che ci ha sempre colpito e che sentiamo vicina. Abbiamo passato dieci giorni in magazzino con questi oggetti e un gruppo di modelle (non professioniste, il casting era volutamente eccentrico). Le abbiamo messe in scena con i pezzi. Non ci aspettavamo venisse così bene. È uno dei lavori di cui andiamo più fieri. Non avere aspettative è un vantaggio. Il nostro obiettivo? Fare qualcosa che nessuno si aspetta.

C’è una tradizione italiana dell’«arte totale». Penso a Casa Balla: tutto è decorato, tutto è arte. Ritrovo quello spirito anche da voi, soprattutto qui nella vostra sede di via Balzaretti a Milano. 
Sì, fin da subito ci siamo detti: niente cornici. Non volevamo trasformare le foto in quadri. Volevamo trovare altri supporti per veicolarle. Il magazine è il seme, e da lì crescono rami: oggetti, spazi, esperienze. Tutto molto pop, volutamente accessibile.

Pop allo stato puro.
Pop puro. La prima cosa che abbiamo fatto? Stampare le immagini su una tovaglia per una cena. Piacquero così tanto che ci dissero: «Ma perché non le producete?». E da lì: tovaglie, piatti, oggetti... Dal 2D al 3D, fino allo spazio e all’ambiente. È stato un passaggio naturale, mai calcolato. Le nostre immagini prendono vita con l’osservatore, servono a smuovere qualcosa, non solo a essere guardate.

Toiletpaper ha poi incontrato anche il mondo della produzione, senza però perdere sé stesso.
Chi lavora con noi cerca proprio la nostra identità. Se qualcuno arriva con idee già pronte, rispondiamo: «Ok, allora facciamo l’opposto». Deve esserci sorpresa. Pierpaolo viene da un background pubblicitario, sa dove sono i limiti. Sappiamo generare attenzione senza mettere in difficoltà il cliente. E pensare che lavoriamo con un brand che si chiama «carta igienica»! Sembrava impossibile, ma funziona. In pubblicità c’era tanto del brand e poco di noi. Qui invece c’è originalità, ed è rimasta.

Toiletpaper è fortemente identitario. Che prospettive ha secondo voi?
È come un buon vino. Ci aspettavamo un calo, invece continua a crescere. È un progetto trasversale: i giovani lo vedono come una fonte per rompere le regole, gli adulti lo leggono in chiave più intellettuale. Ora siamo nella fase museale, immersiva. Non so se avrà una fine. Toiletpaper vive del presente, è legato al momento. Le commissioni arrivano da realtà come «The New York Times», «The New Yorker», «Le Monde»... Raccontiamo l’oggi. E un domani sarà bello sfogliare Toiletpaper per capire com’era la società con tutte le sue nevrosi.

A un primo sguardo sembra qualcosa al di fuori del tempo, anche in ragione della sua estetica vintage. Ma poi ci si accorge che parla proprio del presente, anche in modo pungente.
Esatto, ci tiene vivi!

Dietro c’è un pensiero lucido sulla creazione dell’immagine e sul suo valore oggi. C’è una forte etica, non è scontato. 
Oggi il cinema è in crisi, anche per colpa delle piattaforme. Come nasce un nuovo Stanley Kubrick, se puoi vedere tutto subito?

Forse più che di etica, bisognerebbe parlare di ecologia dell’immagine. Niente arriva per caso, ogni immagine è costruita, pensata, calibrata, tesa. Inoltre so che tutto viene realizzato in studio, dal vero, con pochissima postproduzione. 
È vero, e in effetti ci accorgiamo subito quando un’immagine funziona. È una cosa che senti. Le nostre competenze sono diverse ma si completano. Le immagini hanno pochi elementi, c’è sintesi. E più andiamo avanti, più cerchiamo di semplificare e dire tanto con poco. A volte ci chiedono: «Che cosa volevi dire con questa immagine?». Ma la risposta non c’è: sei tu che ci devi vedere qualcosa. È allora che l’immagine funziona: quando non ha un solo significato, non è didascalica, ti cattura e riconosci che sta parlando di qualcosa che non è scontato. E lo fa in modo più essenziale possibile, senza rumori di fondo. 

Bartolomeo Pietromarchi, 26 luglio 2025 | © Riproduzione riservata

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