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Shirin Neshat, «Untitled» da «Do U Dare! Series» (2025) (particolare)

Courtesy the artist e Galleria Lia Rumma

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Shirin Neshat, «Untitled» da «Do U Dare! Series» (2025) (particolare)

Courtesy the artist e Galleria Lia Rumma

Shirin Neshat: «Affronto la diseguaglianza, ma in modo poetico»

«È sempre una sfida raccontare temi urgenti senza essere troppo espliciti o moralistici», spiega l’artista di origini iraniane: «Uso metafore, allegorie, simboli per narrare. I miei lavori non sono realistici: io credo che nella finzione ci sia più verità»

Bartolomeo Pietromarchi

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Shirin Neshat è una delle artiste contemporanee più riconosciute a livello internazionale. Nata in Iran nel 1957 e trasferitasi a New York in seguito alla Rivoluzione islamica del 1979, dalla fine degli anni ’90 esplora attraverso fotografia, video e cinema, temi come il genere, l’identità, le dinamiche di potere e la diaspora culturale. Il suo lavoro, fortemente radicato nell’esperienza delle donne nelle società islamiche, combina linguaggi poetici e tensione politica, generando immagini iconiche e profondamente evocative. Neshat ha ricevuto numerosi premi internazionali e le sue opere fanno parte delle collezioni dei più importanti musei del mondo. Ampie retrospettive a lei dedicate sono state ospitate in istituzioni di primo piano sia negli Stati Uniti che in Europa.

Shirin, di recente hai realizzato una grande mostra al Pac di Milano, «Body of Evidence», che attraversa trent’anni della tua carriera attraverso dieci videoinstallazioni e centinaia di fotografie. Contemporaneamente, e sempre a Milano, hai presentato anche una personale alla Galleria Lia Rumma, dove hai introdotto un nuovo corpo di lavori, incluso il video «Do U Dare!». Partirei proprio da qui, perché so che dietro a quest’opera c’è una storia molto particolare, che hai scoperto di recente negli Stati Uniti. È la storia di una giovane donna iraniana che, in un certo senso, risuona anche nella tua esperienza personale. Ce la racconti?
«Do U Dare!» è ispirato alla storia di Nasim Aghdam, una giovane rifugiata iraniana che viveva nel Sud della California e che è tragicamente morta a 38 anni. Nasim e la sua famiglia erano fuggiti dall’Iran per timore di persecuzioni, ma lei non è mai riuscita davvero a integrarsi nella cultura americana. Si è progressivamente isolata, passando la maggior parte del tempo da sola nella sua stanza, dove realizzava in segreto dei video: si travestiva, cantava, ballava, interpretava vari personaggi, esprimeva le sue opinioni politiche e sui diritti umani. Caricava tutto sul suo canale YouTube, che è diventato virale, trasformandola in una sorta di star dei media, seguita da milioni di persone in Iran e nel mondo. Nel 2018 però, YouTube le ha improvvisamente chiuso il canale. Privata dell’unico legame con il mondo esterno, e colpita da una profonda rabbia, Nasim ha acquistato un’arma, si è recata alla sede di YouTube, ha aperto il fuoco a caso sui dipendenti (fortunatamente nessuno è rimasto ferito) e infine si è tolta la vita. Oggi è ricordata come la «sparatrice di YouTube». Anche io sono un’immigrata iraniana, in esilio negli Stati Uniti fin da quand’ero giovane, e sento molto vicina la sua storia: quel senso di sradicamento, il conflitto tra due mondi, il non sentirsi accolta né nel Paese di origine né in quello d’adozione. Per lei, la creatività era diventata un modo per sopravvivere, per affrontare il dolore dello sradicamento e mantenere una certa lucidità mentale. Ci sono molte ironie inquietanti nella sua vicenda: è fuggita da un regime oppressivo come quello iraniano, ma è morta davanti alle porte di una multinazionale americana, in una società che si definisce democratica ma che le ha negato la libertà di espressione. Nella vita reale era emarginata, ma davanti alla telecamera si sentiva forte, bella, sexy, viva... e soprattutto libera. Nasim è l’esempio di qualcuno che ha fallito nel mondo reale, ma che ha «prosperato» in quello virtuale. «Do U Dare!» si concentra proprio su queste dualità che erano centrali nella sua personalità: passività/aggressività, maschile/femminile, vulnerabilità/potere. Il video inizia in bianco e nero, seguendo la protagonista in un quartiere povero di immigrati a Brooklyn. Osserva in silenzio i volti stoici della comunità ispanica, ascolta pazientemente un politico americano bianco mentre recita la solita retorica vuota, le promesse del grande sogno americano. Poi l’immagine si accende a colori, quando arriva in un misterioso negozio di parrucche, circondata da teste di manichini dai volti intensi e penetranti. È un labirinto inquietante e quasi fantastico, fatto di figure umane artificiali: alcune intatte, altre rotte, incrinate, persino decapitate. Più si addentra nello spazio, più trova parti di corpi umani sparsi ovunque. Sembra la scena di un genocidio. Eppure, in questo spazio finto, c’è molta più umanità e verità che fuori, nel mondo reale. Le fotografie che accompagnano il video esplorano gli stessi temi, ma in maniera non narrativa.

Uno still dal video «Do U Dare!», 2025, di Shirin Neshat. Courtesy of the artist and Lia Rumma Gallery

Mi sembra che «Do U Dare!» sia uno dei tuoi lavori più apertamente politici. Già il titolo suona come un invito alla coscienza, alla ribellione. Sembra quasi che tu stia passando da un racconto personale sull’esilio a un discorso più diretto sull’attualità politica e sociale.
Sì, simbolicamente direi che il cuore del video è proprio l’atto del protestare. Vediamo come la stessa donna, che inizialmente appare passiva, quasi distaccata dal male che la circonda, torna con rabbia per colpire, per distruggere l’immagine del potere, il politico. È vero, questo lavoro è una critica diretta alla società americana, e riflette probabilmente la mia crescente frustrazione per l’evoluzione della politica statunitense, sia sul piano interno che verso gli immigrati, oltre che nella sua politica estera. E ovviamente sono profondamente colpita dalla violenza in Medio Oriente, dalle catastrofi umanitarie e dal genocidio che sta avvenendo a Gaza.

Nel video si vedono chiaramente due dimensioni: una urbana e politica, in bianco e nero, e una più onirica e colorata. Il protagonista maschile ripete un mantra incomprensibile, che ricorda molto la retorica politica attuale, sempre più distante dai problemi reali delle persone. C’è un forte legame anche con il tema della Triennale di Milano di quest’anno: la disuguaglianza. Ma il tuo messaggio rimane poetico, mai didascalico.
È sempre una sfida raccontare temi così urgenti e complessi senza essere troppo espliciti o moralistici. Per fortuna, io non ho alcun legame con il «realismo»: mi sento più una poetessa. Uso metafore, allegorie, simboli per narrare. I miei lavori non sono realistici, sono finzione: ma io credo che nella finzione ci sia più verità. È per questo che mi sento così a mio agio nel linguaggio del sogno, del realismo magico, del surreale. Mi piace creare opere che fanno riferimento alla realtà, ma senza mai caderci dentro completamente.

La forza simbolica delle tue immagini è molto potente. Nel video, la protagonista sembra quasi una Wonder Woman che si muove tra realtà ambigue, naturali e artificiali. 
La trasformazione della protagonista, da figura maschile e passiva a ribelle erotica e potente, è proprio il cuore del racconto. Torna nel mondo reale per vendicarsi solo quando non è più completamente umana o naturale. Quel look da Wonder Woman è la sua maschera, il suo filtro: è ciò che le permette di sentirsi libera, senza paura.

La passione che metti nel tuo lavoro arriva forte al pubblico. Il tema centrale del tuo lavoro è il corpo, tra fragilità, biotecnologia, femminismo. Come sta evolvendo oggi?
Vengo da una cultura in cui il corpo femminile è sempre stato problematico, sia per le norme religiose che per quelle tradizionali. Quindi è naturale che il corpo femminile sia sempre stato al centro del mio lavoro: come simbolo di peccato, vergogna, desiderio, tentazione. In un mio video recente, «The Fury», il corpo femminile è oggetto di sfruttamento sessuale. E ovviamente nella serie «Women of Allah» il corpo della donna diventa campo di battaglia per la retorica politica e religiosa maschile. «Do U Dare!» in un certo senso riprende quel filone, ma ne sovverte le dinamiche: qui si mostra la tensione tra sottomissione, fragilità e, allo stesso tempo, aggressività e resistenza. La donna non è solo vittima: qui, il corpo diventa la sua arma.

C’è anche un riferimento molto chiaro alla storia dell’arte, in particolare al Surrealismo. Penso a Man Ray o Hans Bellmer...
Assolutamente sì. Per questa serie ho studiato con attenzione fotografi e cineasti surrealisti: Man Ray, Dora Maar, Jean Cocteau, Luis Buñuel, Maya Deren... Mi colpisce sempre la loro capacità di distorcere la realtà in modo sottile ma potentissimo.

Questo progetto sembra l’inizio di qualcosa che continuerai a esplorare.
«Do U Dare!» è infatti il primo video di una trilogia. Ho appena girato il secondo e il terzo e sono in fase di montaggio. Ogni film, sempre con la stessa attrice iraniana, Pegah Fereydoni, è ambientato in contesti socio-economici diversi degli Stati Uniti, dai sobborghi a quartieri del business a New York. Come il primo, anche i nuovi video seguono il viaggio psicologico e personale della protagonista, offrendo allo stesso tempo uno sguardo critico sulla società americana.

Shirin Neshat, «Ariana», dalla serie «Do U Dare!», 2025. Courtesy of the artist and Lia Rumma Gallery

Bartolomeo Pietromarchi, 12 settembre 2025 | © Riproduzione riservata

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