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David Landau
Leggi i suoi articoliCon La Esquinita, la sua prima grande personale, l’artista statunitense Tara Long trasforma completamente gli spazi di Locust Projects a Miami, dando vita a un’installazione immersiva che somiglia a una bodega di quartiere ma che, dietro l’apparenza scintillante, indaga i cicli di estrazione, desiderio e sopravvivenza su cui la città è costruita. L’intero edificio diventa un set totale composto da pareti “glassate”, banconi di zucchero, souvenir commestibili e oltre 500 micro-sculture in vendita. Al centro, come un altare pop, una torta colossale in rovina, grande quanto una stanza: un’architettura fragile, sontuosa e minacciosa allo stesso tempo. La mostra si articola in tre atti (seduzione, esposizione, crollo) una struttura narrativa che Long legge come metafora del destino di Miami: città in perenne reinvenzione, patria di migrazioni continue, speculazioni urbanistiche e miraggi tecnologici. Le bodegas, gli “angoli” di quartiere da cui prende il titolo, diventano così la chiave per raccontare una topografia emotiva e sociale fatta di promesse, smottamenti e ritorni.
È proprio lo zucchero a fare da filo conduttore. Per Long è insieme seduzione e minaccia: una sostanza bella e letale, capace di strutturare economie e dipendenze. Non a caso l’artista accosta la Big Sugar del primo Novecento alla contemporanea Big Tech che ha investito Miami negli ultimi anni, soprattutto dopo la pandemia. Due fenomeni apparentemente distanti che, per Long, condividono lo stesso schema estrattivo: conquista del territorio, espulsione delle comunità, produzione di nuove mitologie urbane. Lo zucchero diventa anche materiale narrativo: pareti che imitano il fondente, superfici stuccate come glassa, oggetti ceramici che sembrano snack deformati. Un’estetica soft e zuccherina che, a uno sguardo più attento, si incrina e rivela le proprie crepe. Il cuore della mostra è la monumentale torta in rovina, un gigantesco organismo architettonico che richiama tanto il kitsch pastello dell’Art Deco di Miami quanto antichi rituali. Long ricorda infatti l’offerta delle torte tonde ad Artemide, nella Grecia antica, dove il fumo delle candele portava i desideri al cielo. Qui quel rito si trasforma: ciò che si offre è un edificio che si sgretola, una città che regge la performance del benessere pur vivendo sulla soglia del collasso climatico e sociale.
Long popola inoltre lo spazio con una serie di performance costruite su archetipi femminili (la fanciulla, la madre, la vecchia, l’innocenza, l’ansia, la villain) figure che l’artista fa emergere attraverso il movimento somatico, come se affiorassero da un substrato collettivo. Una sola parola attraversa l’azione: “mom”. È un richiamo diretto alla biografia dell’artista, segnata da una perdita materna precoce e da una maternità recente, che ha coinciso con l’inizio del progetto. L’ultima sala è un controcampo: una luce morbida, un suono naturale, una proiezione in tempo reale delle Everglades. La natura, qui, non è scenografia ma presenza che osserva e richiede ascolto. È un invito a sospendere lo spettacolo e a cominciare una conversazione più reale, meno adornata, come se, dopo la seduzione e il collasso, restasse soltanto la necessità di guardare ciò che sta davvero sotto. La mostra è anche un’impresa titanica: un grant iniziale di 15.000 dollari, insufficienti per un progetto di tale scala; ulteriori fondi raccolti dall’artista; una produzione interamente autogestita mentre Long diventava madre. Una scommessa rischiosa, come lei stessa ammette, ma forse inevitabile: “Non si può fare arte senza affrontare se stessi”.
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