Image

Verifica le date inserite: la data di inizio deve precedere quella di fine

Image

Silvia Camporesi, «Terza Venezia», 2011

© Silvia Camporesi

Image

Silvia Camporesi, «Terza Venezia», 2011

© Silvia Camporesi

Silvia Camporesi e la fotografia, un rapporto trentennale

Nel suo ultimo libro, edito da Einaudi, l’artista crea una bussola per orientarsi tra i molti volti dell’immagine e le sue talvolta enormi conseguenze

Carola Allemandi

Leggi i suoi articoli

Nonostante la sua diffusione capillare e facile reperibilità, la fotografia è ancora una materia per molti aspetti da indagare: Silvia Camporesi (Forlì, 1973) pubblica per Einaudi, nella collana «Vele», Una foto è una foto è una foto (pp. 120, Einaudi, Torino €13): una bussola per orientarsi tra i molti volti dell’immagine e le sue talvolta enormi conseguenze. 

La fotografia è un atto di cui è ancora bene chiedersi il senso: penso alla frase di sua figlia che cita nel primo capitolo. Riguardava delle arance. 
Un episodio di cinque anni fa. Mentre stavo preparando una spremuta a mia figlia mi fermo e vado a prendere la macchina fotografica. Lei mi guarda e dice: «Ma le arance si mangiano, non si fotografano». La foto la feci comunque, però ho riflettuto molto su questa frase perché ci ricorda che in quest’epoca dominata dalla democratizzazione della fotografia, sfruttiamo la possibilità e fotografiamo senza sosta. Ma la domanda è perché, perché abbiamo così bisogno di catalogare le nostre vite quotidiane? Ho trovato tre risposte: la prima, perché è facile farlo e non facendolo ci sembra di perdere qualcosa; in secondo luogo è un tentativo di fermare il tempo, una reazione alla consapevolezza della nostra caducità; infine per egocentrismo, insito nel genere umano, che la fotografia ha potenziato. In tutto il libro non c’è un giudizio di valore, né nostalgia per il passato, ma un’analisi su come stanno le cose oggi, un tentativo di consapevolezza.

Nel suo libro si aprono varie considerazioni di carattere anche antropologico. La fotografia muta le azioni degli uomini: penso ai casi di overtourism che cita. Scrive infatti: «Le immagini hanno implicazioni, sempre e comunque».
È il sottofondo di questo libro: anche l’acquisto di un prodotto che non stavo cercando e che vedo online è già un’azione generata da una fotografia. Noi siamo lusingati dalle immagini, ci lasciamo prendere, diamo spesso loro ciò che vogliono da noi. Un esempio clamoroso è proprio l’overtourism, profondamente legato alla condivisione di immagini a effetto sui social. La reazione a catena influenzata dall’algoritmo, che porta migliaia di persone a visitare luoghi che fino a pochi anni fa erano salvi dall’iperturismo, è un’enorme conseguenza dell’immagine di cui nessuno parla. È bene rendersi conto di questi aspetti della fotografia, che dal momento in cui è stata resa alla portata di tutti non può più definirsi innocua.

Nel libro passa trasversalmente dalla fotografia amatoriale, a quella professionale e quella artistica. C’è voglia di fare ordine.
È vero, è un libro che sintetizza i miei trent’anni di rapporto con la fotografia, intrecciando la mia esperienza da fotografa, insegnante, lettrice laureata in Filosofia. È un libro molto personale anche se tratta temi comuni. Mi è servito per fare ordine, come dici, per capire il mondo delle immagini oggi, tema su cui esiste ancora molta confusione data dal fatto che, appunto, i tre piani, professionale, amatoriale e artistico, sono in realtà intrecciati. Il mio intento è quello di capire dove la fotografia (e quale tipo) possa diventare problematica. Nel libro ricordo che nel mondo si producono 61.400 fotografie al secondo, molte poi immesse in rete: un flusso costante di immagini senza contesto. Il problema è la verità di queste immagini: che cosa vogliono comunicare? Le fotografie sono oggetti che una volta liberati hanno delle conseguenze.  

Quanto è importante studiare la storia della fotografia, le sue evoluzioni contemporanee e le sue implicazioni teoriche? È un approccio che dovrebbero seguire tutti i fotografi?
Il titolo si riferisce proprio a questo. A partire dalla citazione di Gertrude Stein, ho voluto ribadire che «una foto è una foto»: nonostante la banalizzazione che sta subendo, la fotografia ha un passato straordinario, una storia che si tende a mettere in secondo piano dal fatto che dagli anni 2000 in poi la fotografia ha perso il corpo, la materia, la carta, («materia», dice Fontcuberta, ha la stessa matrice di «mater», madre) diventando sequenza numerica. Oggi è bene che chi si avvicina alla fotografia innanzitutto prenda coscienza di quello che è stato, non si può partire come se la fotografia fosse nata oggi. 

Tra i molti riferimenti, uno particolarmente importante mi pare Erik Kessels. Soprattutto in relazione a temi su cui spesso ritorna: la quantità di immagini che popola il nostro tempo e il disorientamento che l’essere umano vive oggi in quel «gioco di specchi» che è il mondo mediatico e visivo.
Kessels è stato uno dei padrini della consapevolezza di che cosa stava diventando l’immagine all’inizio del 2000, quando realizza le sue installazioni prendendo tutte le immagini che in un giorno sono state caricate su Flickr e le stampa, cioè ridà materia a un’immagine che ha perso il corpo. Kessels ci fa vedere che cosa è diventato il web: il nuovo peso, per nulla innocuo, della fotografia. Sebbene abbiamo eliminato tutta la chimica, la quantità di file va gestita, infatti, attraverso un enorme consumo di energia. Oggi, poi, una ricerca con ChatGpt consuma dieci volte tanto rispetto a un normale motore di ricerca. Kessels è stato il primo che ci ha fatto riflettere su questo aspetto, oltre a quello, di cui parlo, dell’omologazione dell’estetica. 

A chi spera che arrivi il suo libro?
È un libro che offre varie possibilità di lettura, sia che si conoscano già gli argomenti, sia che li si approcci per la prima volta. Lo dico a partire da vari riscontri che ho ricevuto finora. Questo libro rientra nel concetto più ampio di cultura visuale, che non riguarda solo le immagini, ma tutto quello che viviamo e guardiamo ogni giorno: una disciplina che andrebbe insegnata nelle scuole, per dare strumenti in più a ragazzi che vivono in questo sistema. È proprio un vademecum per l’immagine contemporanea che, alla fine, vuole portare alla domanda: «La faccio o no, quella foto?». Il discorso resta sempre se mangiare le arance o fotografarle. 

Silvia Camporesi, «Romagna sfigurata», 2023. © Silvia Camporesi

Carola Allemandi, 04 dicembre 2025 | © Riproduzione riservata

Altri articoli dell'autore

Alla Gam di Torino la prima mostra antologica della fotografa svedese in un’istituzione italiana

L’artista vincitrice del secondo Collective Prize del Castello di Rivoli racconta il processo creativo dietro l’opera e la sua trasformazione nel realizzarla

Silvia Camporesi e la fotografia, un rapporto trentennale | Carola Allemandi

Silvia Camporesi e la fotografia, un rapporto trentennale | Carola Allemandi