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Cristina Valota
Leggi i suoi articoliDurante la sua più che trentennale carriera come curatrice indipendente, critica d’arte e art advisor, Rosa Martínez (Soria, Spagna, 1955) ha diretto, curato e cocurato biennali internazionali a Barcellona (1988-92), Istanbul (1997), Santa Fe in New Mexico (1999), Pusan in Corea del Sud (2000; dal 2001 rinominata Busan, Ndr), Mosca (2005 e 2007) e San Paolo (2006). Nel 2005 ha diretto la Mostra Internazionale della Biennale di Venezia all’Arsenale, diventando così (con María de Corral, curatrice del Padiglione Italia) una delle prime due donne direttrici nei 110 anni di storia della mostra. Nel 2026 sarà la direttrice artistica della seconda Biennale di Malta (11 marzo-29 maggio 2026).
Ora che sono entrate in scena figure tradizionalmente esterne al sistema dell’arte (filosofi, antropologi, scienziati…), il ruolo del curatore nelle biennali è cambiato?
La professione di curatore è molto recente. Storicamente, la funzione curatoriale era marginale e discreta. Era finalizzata all’organizzazione dei gabinetti delle curiosità dell’aristocrazia o alla classificazione delle collezioni dei musei. Tuttavia, a partire dagli anni Settanta del secolo scorso, è diventata parte di uno star system che ha portato alcuni curatori a essere considerati più artisti degli artisti stessi. Quel glamour associato al potere di scegliere e creare discorsi estetici e ideologici rilevanti ha suscitato la tentazione di definirsi «curatori» in professionisti di molte altre discipline. Oggi si curerebbero sfilate di moda, vetrine di negozi, vini e qualsiasi altra cosa che comporti una scelta. E poiché tutti hanno le proprie opinioni e i propri gusti, galleristi, collezionisti, mercanti d’arte, appassionati d’arte e persino politici pretenziosi o milionari annoiati, curerebbero mostre. C’è anche un flusso tra le discipline che amplia i confini di questa professione in modo arricchente. Il fatto che il filosofo Jean-François Lyotard sia stato invitato propio dal Centre Pompidou a organizzare «Les Immaterielles» (1985), una mostra sulle sue teorie sulla fine della modernità e l’inizio di una nuova era in cui l’inesorabile linearità del progresso scompariva a favore di una sincronicità casuale, è indicativo della volontà di dimostrare che i campi del sapere sono interconnessi, che la cultura occidentale non è l’unica rilevante e che è possibile dissolvere i confini e le gerarchie che determinano il canone. Tuttavia, le riflessioni della filosofia o del pensiero scientifico non sono facili da «tradurre» nel linguaggio espositivo e molte delle mostre relative a questi temi sono deludenti. Il vero lavoro di curatela, quello che organizza racconti rilevanti sullo Zeitgeist, lo stato delle arti e del pensiero, non è frequente e bisogna tornare a mostre mitiche come «When Attitudes Become Form» (1969) di Harald Szeemann per comprendere la magia e il potere di un vero curatore. Anche se, curiosamente, Szeemann non si definiva un curatore, ma un «autore».
Che cosa pensa del fenomeno diffuso di artisti che sono anche curatori di biennali?
Sono le istituzioni stesse che invitano gli artisti a fare da curatori. A volte si tratta di un semplice esercizio di marketing e di appropriazione della fama dell’artista, ma può anche essere un tentativo di rinnovamento e un’opportunità per aggiungere nuove visioni. Per gli artisti è un’occasione per dimostrare che possono andare oltre il proprio lavoro e che i loro gusti possono creare fili conduttori e connessioni rivelatrici. A volte nascono proposte interessanti, ma in realtà non ricordo nessuna biennale curata da artisti che abbia fatto davvero la differenza. Memorabile è stata invece la collaborazione tra Maurizio Cattelan, Massimiliano Gioni e Ali Subotnick nel 2004 con la IV Biennale di Berlino, concentrata in un’unica strada, Auguststraße, con un percorso molto ben scandito da una chiesa a un cimitero.
Può tracciare un identikit delle biennali da lei curate?
Il termine «biennale» può essere una designazione generica che si applica a qualsiasi evento che si tiene ogni due anni. Ma è anche diventato sinonimo di una tipologia specifica di mostre che promuovono il dialogo transnazionale e transgenerazionale e favoriscono l’interazione delle produzioni artistiche con il contesto sociale e/o patrimoniale della città che le ospita. Cogliere lo spirito del tempo e promuovere il dialogo tra i creatori locali e i visitatori, arricchendo il vocabolario internazionale, è un altro degli obiettivi fondamentali. Questa «bella combinazione» di fulcri può creare centri magnetici e prestigiosi per i visitatori illuminati e aumentare il turismo di qualità. Tutte le mie biennali rientrano in questo ambito generico. Le differenze sono state determinate dalle specificità di ogni luogo, dalla trasformazione delle linee del pensiero critico e dalla mia crescita personale e professionale. Una biennale dovrebbe, idealmente, essere un evento profondamente politico e spirituale che contempla il presente con il desiderio di trasformarlo. Questo approccio diventa utopistico quando ai curatori viene concesso sempre meno tempo per configurare le biennali. La curatela non è una scienza infusa, anche se l’intuizione gioca un ruolo importante. Ci vuole coraggio per superare la volontà decorativa e spettacolare perseguita da alcune istituzioni. E ci vuole tempo per generare consapevolezza ed eccellenza, per creare una creatura meravigliosa che possa continuare a vivere e a dare vita. La prova più evidente che il tempo può essere benefico è stata la Biennale di Venezia curata da Cecilia Alemani nel 2022, che, in seguito alla pandemia, ha avuto tre anni per organizzare le capsule più belle che io ricordi. María de Corral e io abbiamo avuto a disposizione meno di nove mesi e abbiamo dovuto attingere al nostro bagaglio e alla nostra esperienza accumulata. D’altra parte, a volte i curatori sono accusati di essere come i paracadutisti che, come i piloti di aerei, eseguono una manovra di «touch and go» e poi decollano di nuovo. Eppure, il curatore nomade può offrire una prospettiva e una distanza che non hanno le persone che vivono nella realtà concreta di una città. La mia più grande fortuna è stata quella di poter creare dialoghi tra il patrimonio urbano di luoghi molto belli come Istanbul o Santa Fe, di piccole città come Limerick, e di articolare un percorso sensoriale e ideologico attraverso l’Arsenale di Venezia. La mia ultima sfida si concretizzerà alla Biennale di Malta nel 2026, dove le isole dell’arcipelago saranno il contesto in cui coniugare visioni attuali. Spero di condividere i segreti del mio kit curatoriale in un libro che sto scrivendo. Ma il coraggio, nel doppio senso di audacia critica e cuore solidale, è indispensabile.
In un’epoca in cui i mezzi di comunicazione facilitano la diffusione di informazioni, sono ancora validi la pratica di visitare gli studi degli artisti e il rapporto diretto con loro?
La velocità con cui oggi si consumano le informazioni sta rendendo obsoleto il modello del dialogo approfondito con gli artisti, i pomeriggi rilassati negli studi, lo scambio di opinioni in incontri informali. Internet è un eccellente strumento di ricerca, ma la capacità di valutazione deve essere esercitata con più criterio che mai. Tutti hanno il diritto di esprimere le proprie capacità creative, ma i cliché, la ripetizione di formule, le imitazioni volgari e le proposte politicamente superficiali attraversano tutta la rete.
Ha dei modelli curatoriali nella storia delle biennali?
Per me il modello ideale di curatore era Harald Szeemann. Ricordo di averlo conosciuto a una conferenza in cui spiegava le sue mostre e lì ho avuto l’illuminazione che mi ha portato a consolidare la mia pratica. Ho capito che volevo essere come lui, ma senza la barba. Gerardo Mosquera, cofondatore della Biennale dell’Avana, con la sua apertura mentale e il suo continuo sostegno all’arte latinoamericana e africana, è sempre stato rilevante nel contesto del Sud del mondo. Tuttavia, l’approccio di Adriano Pedrosa alla Biennale di Venezia del 2024, che, partendo dallo stesso contesto, voleva essere «inclusivo» e ampliare i confini ad artisti provenienti da latitudini che non avevano mai partecipato alla Biennale, mi è sembrato sbagliato. Selezionarli e poi inserirli nelle categorie occidentali di ritratto, astrazione, figurazione ecc. è stato un esercizio di ricolonizzazione. In ogni edizione della Biennale di Venezia si ripete un detto ironico: «Questa è la peggiore Biennale che abbia mai visto» e la risposta automatica è: «Aspetta la prossima, potrebbe essere ancora peggiore». Credo che questa affermazione avrebbe potuto essere smentita dal contributo di Koyo Kouoh nel 2026, ma tutto è rimasto in sospeso con la sua prematura scomparsa (la mostra si farà secondo il progetto definito da Koyo Kouoh e sarà curato dal suo team, Ndr). Harald Szeemann rimane quindi il punto di riferimento fondamentale del curatorato indipendente, poiché ha saputo coniugare come nessun altro libertà e disciplina, fantasia e rigore. È stato lui a definire gli atteggiamenti come forma, andando oltre la materialità, gli stili e gli «ismi». Oltre ad aver realizzato la migliore documenta della storia nel 1972, è stato l’unico professionista che ha osato organizzare due volte consecutive la Biennale di Venezia, quella del 1999 e quella del 2001, ed era molto orgoglioso di trovarsi in quel momento cruciale del cambio di millennio. Harald Szeemann era un vortice di saggezza. Quindi i giovani aspiranti curatori dovrebbero studiarlo. E molto.
Nel 2005, lei e María de Corral siete state le prime due donne a curare la Biennale di Venezia. Pensa di aver rappresentato un modello per le sue colleghe che l’hanno succeduta?
Ci siamo iscritte in modo indelebile nella storia delle esposizioni come figure rilevanti del cambiamento di paradigma che per 110 anni aveva mantenuto solo gli uomini al potere a Venezia. Sebbene curassimo mostre indipendenti (María al Padiglione Italia e io all’Arsenale), siamo riuscite a dimostrare come la sensibilità e la capacità di collaborazione tra le donne contribuiscano ad ampliare la visione di ciò che significa essere nel mondo e produrre arte. Si è così aperta la porta affinché altre donne continuassero a lasciare il segno attraverso la Biennale. E affinché si arrivasse alla mostra di Cecilia Alemani nel 2024 con il 90% delle donne selezionate. Basti ricordare, come hanno sottolineato le Guerrilla Girls, che le percentuali erano state del 2% nel 1897 e del 9% nel 1997...
Lei dirigerà la seconda Biennale di Malta, intitolata «Clean | Clear | Cut». Quale sarà l’idea alla base del suo progetto curatoriale?
Piuttosto che pensare a una mostra tematica, i tre verbi utilizzati nel titolo sono un invito all’azione, un invito a depurare, discernere e tagliare, per uscire dal caos planetario, dalla tossicità ambientale e politica, nonché dal manierismo in cui è immersa l’arte contemporanea. È ancora presto per vedere che cosa otterremo. Il dono rimane quello di promuovere il dialogo tra i progetti contemporanei e il ricco patrimonio materiale e immateriale delle isole. I segni che la storia ha lasciato sulla «roccia», come la chiamano gli stessi maltesi, sono unici. I suoi abitanti preistorici hanno creato affascinanti templi solari e sepolture sotterranee percorribili, come il singolare Hal Saflieni Hypogeum, più antico e misterioso delle piramidi d’Egitto. I mercanti fenici, i vicini siciliani, i cavalieri dell’Ordine di san Giovanni, gli invasori francesi, i colonizzatori inglesi o gli stessi maltesi, che hanno lottato per la loro indipendenza, hanno plasmato un presente che ha trasformato l’arcipelago in un campo in cui si incrociano molteplici tensioni economiche, sociali e politiche. Articolare percorsi artistici che alimentino la passione estetica e la coscienza critica è una nuova sfida e un’occasione unica per attivare l’energia rinnovatrice che le biennali possono proporre.