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Federico Florian
Leggi i suoi articoliNew York. «La volontà di raffigurare le cose, di osservarle, è ciò che ci rende umani. È così che l’arte acquisisce senso e dà forma a tale senso, come la ricerca religiosa di dio». Con queste parole Gerhard Richter, forse il più prolifico e influente pittore contemporaneo sulla scena internazionale, definisce l’essenza stessa della sua pratica: la pittura come esplorazione gnoseologica, per definirla in termini filosofici; oppure, detta altrimenti, come mezzo per conoscere la realtà e il mondo.
Ragione per cui i suoi lavori, tecnicamente ineccepibili, oscillano tra figurazione e astrazione, naturalismo e concettualismo, tutti prodotti di una sessantennale indagine sul medium pittorico, tutt’oggi ancora in corso.
Dal 4 marzo al 5 luglio il Met Breuer di New York ospita un’ambiziosa retrospettiva dell’artista tedesco (nato a Dresda nel 1932 e ora di stanza a Colonia), la maggiore in territorio statunitense negli ultimi vent’anni.
Oltre cento i lavori in mostra, fra cui anche alcune foto, stampe e due nuove sculture in vetro, ideati nell’arco di un dilatatissimo intervallo temporale: dagli albori degli anni Sessanta, quando Richter realizzò le prime copie dipinte di fotografie in bianco e nero, rese in scale di grigi dall’effetto sfumato, ai giorni nostri.
Punto di partenza del percorso espositivo sono due serie pittoriche, rispettivamente del 2014 e del 2006, entrambe esposte in America per la prima volta: «Birkenau», interpretazione espressionista delle uniche immagini fotografiche scattate dai prigionieri del campo di concentramento nazista, e «Cage», composizioni astratte multistratificate prodotte in omaggio al musicista John Cage.
Fra i must-see, il gruppo di dodici dipinti «Forest» (2005), con cui l’artista ridefinisce il genere della pittura di paesaggio, e la serie di monotipi «Elba», realizzata alla fine degli anni ’50 e meno nota ai più. A cura di Sheena Wagstaff e Benjamin H.D. Buchloh, la retrospettiva in agosto verrà allestita al MoCA di Los Angeles.
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