Elena Correggia
Leggi i suoi articoliUna fiaschetta in porcellana cinese, dalla rara forma a luna piena, dinastia Ming, periodo dell’imperatore Yongle (inizi XV secolo) da Sotheby’s, a Hong Kong, è stata venduta nell’autunno 2023 per 10,9 milioni di dollari. Nella stessa asta un grande cabinet con pannelli intagliati in legno pregiato zitan, periodo Kangxi (1661-1722) ha sfiorato i 7 milioni. Da Christie’s a New York, invece, nel marzo scorso un piccolo piatto, dinastia Song-Yuan ha superato il milione e mezzo di dollari, mentre da Bonhams Cornette de Saint Cyr a giugno, a Parigi, una figura in lega di rame dorata del Vajradhara, Nepal, XIV secolo, è stata venduta per oltre 4,16 milioni di euro, cifra sei volte superiore la stima di 600-800mila. Sono pochi casi, eclatanti, ma testimoniano i prezzi e gli exploit significativi raggiunti dalle opere d’arte orientale. Un settore dalle dinamiche vorticose e complesse, spesso di difficile decodificazione per i collezionisti occidentali.
«Il mercato dell’arte antica cinese è al 90% in mano agli stessi cinesi che, a partire dagli anni ’90, hanno cominciato a riappropriarsi degli oggetti della loro storia dell’arte, in particolare di età imperiale», spiega Dario Mottola, esperto del dipartimento di arte orientale della casa d’aste Cambi. «A inizio ’900 anche in Occidente ci furono grandi collezionisti come Sir David Percival, la cui raccolta ora fa parte del British Museum di Londra, oppure Émile Guimet, fondatore dell’omonimo museo parigino di arte asiatica. Oggi invece gli oggetti più preziosi sono acquistati da miliardari cinesi o da istituzioni come la Bank of China e poi a cascata si è sviluppato un diffuso collezionismo da parte della borghesia. Nel 2017 da Cambi fu l’ex tassista e ora magnate Liu Yiqian ad acquistare una rarissima scultura in bronzo del XVII secolo, realizzata in Mongolia dall’artista e monaco illuminato Zanabazar, per 4,69 milioni di euro. I cinesi hanno sempre prediletto il periodo imperiale moderno ovvero quello Qing, che prima veniva invece snobbato dal mercato. Negli anni Settanta-Ottanta si potevano acquistare oggetti di età imperiale della dinastia Qing a valori 50 o 100 volte inferiori rispetto a quelli attuali. Detto questo però i manufatti straordinari di epoche precedenti hanno mantenuto valori di mercato altissimi. Dal periodo della pandemia in poi anche l’Oriente ha subito qualche contraccolpo economico con il calo del Pil e la decisione del Governo cinese di stabilire restrizioni all’uscita dei capitali. Il più grande mercato per l’arte orientale rimane comunque Hong Kong, quello italiano rappresenta un bacino per la riesportazione in Oriente di oggetti acquistati in passato. È bene sapere infatti che negli anni ’60-70 gli importatori occidentali potevano acquistare opere, anche se non più antiche di cento anni, e comprarono a dei prezzi decisamente modesti che oggi sono decuplicati. Basti pensare che la domanda in Oriente annovera 1,5-1,7 milioni di operatori nel campo antiquariale!»
L’impennata dei prezzi, quindi, rende ora molto difficile l’ingresso da parte dei collezionisti occidentali, che faticano a pagare 10-30 o 50 volte il prezzo per un oggetto rispetto a quanto costava venti anni fa. Da Christie’s a Parigi, ad esempio, nel giugno scorso una coppia di piattini monocromi gialli di porcellana smaltata, dinastia Qing, periodo 1723-35, ha visto lievitare la stima di 18-22 mila euro fino alla vendita per oltre 157mila. «Tutto ruota intorno alle variazioni dell’economia cinese e l’unica cosa possibile per un occidentale è tentare di sfruttare queste oscillazioni che rispetto al passato avvengono più repentinamente, anche ogni sei mesi, in base alle mode seguite in Cina dai collezionisti e da mercanti che sono anche investitori», afferma Roberto Gaggianesi, titolare insieme alla figlia Carla della storica galleria La Galliavola di Milano. «Il lavoro culturale, di scoperta e diffusione di conoscenza compiuto dalle gallerie per decenni non interessa più alla maggior parte degli acquirenti cinesi».
Un elemento che fin dall’inizio ha però inquinato il mercato dell’arte cinese è quello dei falsi, che continua a prosperare, avvalendosi di competenze molto sofisticate. In passato c’erano mercanti cinesi che riacquistavano in Occidente le loro porcellane dell’Ottocento con marca spesso apocrifa per rivenderle in Oriente a prezzi gonfiati. Con il passare del tempo però anche i collezionisti cinesi sono diventati più accorti, hanno cominciato a pretendere certificati di autenticità, documenti che attestano la provenienza e i passaggi in asta delle opere, a garanzia dell’acquisto. «Il problema che permane è la grande perfezione raggiunta dai falsi», sottolinea Gaggianesi. Quanto alle tipologie di oggetti più apprezzati sono molto variabili e subiscono i cambiamenti del gusto: «Si tratta quasi di un fenomeno borsistico», commenta Mottola.
Le porcellane rimangono la punta di diamante della produzione cinese, seguite dalla pittura e poi dai bronzi dorati. «Questi ultimi però erano in auge fino a 8-10 anni fa, a prescindere dall’epoca o dall’iconografia, mentre oggi il mercato è più selettivo, prosegue Gaggianesi, continuano a essere ricercate le opere di qualità antecedenti al XIV secolo, per gli oggetti di epoca successiva, se non sono straordinari, il valore risulta anche dimezzato. Molto amate sono le giade, per il materiale più che per la lavorazione».
Dinamiche di prezzo decisamente più conservative caratterizzano infine la produzione artistica nipponica, avvicinabile con esborsi a partire da qualche migliaio di euro. «Si tratta di un’arte rara e pregiata, con porcellane della fine del Seicento che, a parità di qualità, costano un decimo di quelle cinesi, conclude Mottola. Anche durante l’epoca Meiji, fra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, vi fu una produzione di manufatti raffinatissimi. Proprio nell’ultima asta di arte asiatica da Cambi, il 6 giugno scorso, abbiamo proposto una coppia di “moon flask” cloisonné con figure di samurai e anatre che da una stima di 2-3mila euro sono state vendute al doppio».
Nell’ambito dell’arte indiana classica, è interessante osservare come negli ultimi tre anni si stia apprezzando la pittura di scuole inusuali e del periodo a ridosso della caduta dell’impero Mughal e il collezionismo di «arti minori». «Le tipologie di opere più ricercate sono i dipinti, dal 1526 (anno di fondazione dell’impero Mughal in India) in poi inclusi i fogli illustrati di manoscritti in particolare dell’India musulmana (XVI-XIX secolo), ritratti, studi architettonici e naturalistici della Company School (seconda metà del XVIII secolo) e le litografie ottocentesche, spiega Beatrice Campi, direttrice e capo dipartimento di arte islamica e indiana della casa d’aste Azca Auctions. Benché scuole di pittura assai celebri come quella Mughal e Pahari del Nord dell’India mantengano il loro primato, altre meno note e ambite come la scuola Kalighat di Calcutta ma anche gli oli su tela bengalesi e le pitture Sikh del Punjab stanno ottenendo un successo inaspettato, passando spesso da stime di poche centinaia di sterline fino a vendite per svariate migliaia. Seguono poi gli argenti indiani, in particolare quelli firmati come Oomersi Mawji Bhuj (spesso abbreviato in OM Bhuj) o Peter Orr&Sons, a cavallo del cambio generazionale tra India imperiale e coloniale, l’arte Sikh del Nord dell’India, le lacche del Kashmir e le produzioni in legno di sandalo di Mysore (Karnataka). In passato il mercato dell’arte indiana era dominato da compratori inglesi, europei (soprattutto italiani e tedeschi) e americani, mentre oggi i principali acquirenti di queste opere sono indiani, non solo residenti all’estero, molto spesso residenti in India», aggiunge Campi. «Si sta dunque verificando un fenomeno simile a quello della Cina post 2010: un riemergere dell’orgoglio nazionale che implica la “caccia al patrimonio culturale” perso o diluito nel tempo».
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