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Perché i musei fanno mostre per i privati

I fondi statali scarseggiano e i direttori devono ingraziarsi mecenati miliardari

Cristina Ruiz

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Frances Morris , direttrice della Tate Modern di Londra, ha organizzato la mostra «New Beginnings: Between Gesture and Geometry» (fino al 9 aprile) di arte del dopoguerra da Europa e Asia, aperta alla George Economou Collection, il museo privato di Atene fondato dall’omonimo magnate del trasporto marittimo greco. All’inizio di quest’anno lo stesso spazio ha ospitato una rassegna di arte minimalista organizzata da Mark Godfrey, anch’egli curatore alla Tate. Queste mostre seguono una donazione in contanti fatta alla Tate Modern proprio dal magnate greco, trustee della Tate Foundation, l’organizzazione che si occupa di consulenza e fundraising. Anche se il museo non ha reso nota la consistenza della donazione, è stata di tale entità da far intitolare al mecenate una delle sale del nuovo ampliamento di Herzog & de Meuron, la Switch House, costata 260 milioni di sterline.

Questa collaborazione tra uno dei principali musei del mondo e un ricco mecenate riflette il legame sempre più stretto tra istituzioni pubbliche e ricchi privati in un’era di continui tagli ai finanziamenti statali. I collezionisti hanno sempre fatto parte dei comitati direttivi dei musei, ma molti ora aprono anche gallerie e chiedono a curatori e direttori di musei pubblici di organizzare delle mostre per loro. «C’era una barriera tra interesse privato e finalità pubblica che ora non esiste più, dichiara una fonte interna al mondo dell’arte. I musei hanno cambiato completamente il loro modo di operare».

Direttori in affitto La Morris non è il solo direttore ad aver organizzato una mostra per un donatore. Nel 2011, Ivona Blazwick, direttrice della Whitechapel Gallery di Londra, si è imbarcata in una partnership di tre anni con la famiglia anglo-canadese dei Weston. In cambio di una donazione per la programmazione e la didattica, Blazwick ha organizzato tre mostre alla galleria Weston di Windsor, vicino a Orlando, in Florida.

A suo tempo, Michael Govan, direttore del Los Angeles County Museum of Art (Lacma), avviò una collaborazione con il magnate francese di beni di lusso e collezionista François Pinault, quando cercarono entrambi di aggiudicarsi l’installazione di Bruce Nauman «For beginners» (2010). Pinault acquistò l’opera nel 2011 e ne donò una partecipazione del 50% al Lacma. Due anni dopo, Govan coorganizzò una mostra di Mono-ha e Arte povera alla Punta della Dogana, il museo privato di Pinault a Venezia. «Condividiamo l’interesse per molti artisti, per questo mi ha chiesto di dialogare con la sua collezione e il risultato è un rapporto tutt’ora in corso», si legge in una dichiarazione di Govan.

Con la concorrenza sempre più forte tra i musei per assicurarsi donazioni di contanti e opere d’arte da parte di ricchi privati, questi apparenti conflitti di interesse sono destinati a moltiplicarsi. Il collezionista belga Alain Servais osserva: «Ci sono state critiche ai finanziamenti di società private ai musei, come le dimostrazioni contro la sponsorship della Tate da parte di BP (interrottasi dopo 26 anni, Ndr). Il pubblico non vuole che le istituzioni siano finanziate dalle sigarette o dal petrolio. Da chi dovrebbero esserlo allora?», si chiede Servais. Nicholas Cullinan, direttore della National Portrait Gallery di Londra, dice: «La domanda chiave è: come fa un museo a mantenere una condotta etica, trasparente, a beneficio dei suoi visitatori, dello staff e dei sostenitori?».

Poca chiarezza Tuttavia, le collaborazioni con i collezionisti privati hanno il potenziale di sovvertire la finalità dei musei, mette in guardia Adrian Ellis, direttore della società di consulenza culturale AEA Consulting. «I musei sono finanziati dal denaro pubblico, attraverso sovvenzioni dirette in Europa e tramite le tasse negli Stati Uniti. Se i beneficiari sono i collezionisti, c’è un elemento che implicitamente non funziona». Anche se i collezionisti hanno trasferito la proprietà delle loro opere a fondazioni, «queste organizzazioni spesso sono ancora sotto il controllo effettivo dei donatori», spiega Ellis.

La George Economou Collection è uno «spazio non profit a ingresso libero che organizza mostre per aiutare lo sviluppo del dialogo internazionale ed essere fonte di ispirazione per i visitatori», si legge in una dichiarazione di Skarlet Smatana, direttrice delle collezioni, che aggiunge come i curatori ospiti portino alla collezione punti di vista e know how differenti. Smatana non ha però specificato se la collezione venda opere d’arte, elemento che farebbe la differenza in tale scenario. Una portavoce della Tate sottolinea che la donazione in contanti di Economou al museo risale al 2011, molto tempo prima che la Morris fosse invitata a organizzare la mostra ad Atene e prima che lei diventasse direttore. La portavoce aggiunge che i curatori della Tate sono spesso invitati a organizzare mostre fuori dal museo. L’istituzione valuta queste opportunità in base a «criteri chiave», aggiunge, includendo tra questi l’eccellenza della collezione, il vantaggio del pubblico dal progetto e il potenziale di far conoscere questo soggetto a un ulteriore bacino di visitatori.

Parla Dercon:«Eravamo meno gentili con i collezionisti...»Un effetto insidioso del desiderio dei musei di fare felici i collezionisti è l’autocensura, spiega Chris Dercon, ex direttore della Tate Modern che ha recentemente lasciato il museo. Dercon afferma che è diventato impossibile criticare le acquisizioni dei collezionisti privati. «Quando lavoravo in Europa avevamo ricchi database su quali collezionisti possedessero i migliori esempi di arte concettuale. Ne parlavamo direttamente con loro. A Londra ho imparato a essere molto cauto, dice. Siamo ormai tutti molto gentili con i collezionisti che ci mostrano le loro acquisizioni, al punto che la critica come la conoscevamo noi non esiste più».

Cristina Ruiz, 02 novembre 2016 | © Riproduzione riservata

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